1. Mining votes
Nella campagna elettorale di Trump, la lobby del carbone ha avuto un peso importante nel garantirgli la maggioranza dei Grandi Elettori. Trump, vestendosi da difensore dei minatori, ha solleticato le minoranze operaie degli Stati produttori: oltre alla Pennsylvania, il Wyoming, la West Virginia, il Kentucky e l’Illinois, che coprono il 72% della produzione USA. E quattro di questi Stati, escluso l’Illinois che è andato alla Clinton, gli hanno dato metà del margine di voti elettorali con cui ha vinto.
Fonti:
Per i dati elettorali (Stati pro-Trump in rosso, Stati pro-Clinton in azzurro): NY Times, https://www.nytimes.com/elections/results/president#
Per i dati sulla produzione di carbone (circoletti gialli): EIA, https://www.eia.gov/tools/faqs/faq.php?id=69&t=2.
Nel 2015 furono prodotti 897 mill. di short tons di cui il 72% in cinque Stati:
Wyoming: 375.8 (42%)
West Virginia: 95.6 (11%)
Kentucky: 61.4 (7%)
Illinois: 56.1 (6%)
Pennsylvania: 50.0 (6%)
Sul piano internazionale il Trump minatore si allontana ulteriormente dall’Europa: le reazioni di Merkel, Macron e perfino Gentiloni non lasciano adito a dubbi. Sul piano ideale il Grande Minatore si allontana definitivamente dal modello liberista della Thatcher, che con la sconfitta dei minatori fece risorgere dalle sue ceneri l’economia inglese e alla lunga portò alla nascita del New Labour di Blair, finalmente liberato dal fardello operaista.
Putin aiuta Trump ancora una volta annunciando che gli Accordi di Parigi sono inattuabili senza di lui, spingendo ad una loro ridefinizione più favorevole agli USA (e alla Russia). Riuscire a tenere la barra dritta da parte di Europa e Cina non sarà facile; potrebbe richiedere interventi di sostegno alle politiche ambientali che penalizzino i paesi non aderenti: un possibile fronte di conflitto che può favorire l’isolazionismo americano.
2. La crisi del carbone: un tema inattuale
Gli Stati Uniti hanno assistito alla riduzione dell’utilizzo interno e dell’esportazione di carbone negli ultimi anni: la produzione è scesa di circa un terzo dal picco del 2011, come illustra la figura.
Sono cadute le esportazioni (- 25% tra 2010 e 2016 e -55% tra 2012 e 2016) in particolare verso la Cina e la costruzione di 8 terminali di esportazione sul Pacifico è sospesa, lasciandone in cantiere solo 4.
Oltre il 90% del carbone viene utilizzato nella generazione elettrica. Per assicurare prezzi bassi dell’energia elettrica (il rapporto tra prezzo medio USA e prezzo medio UE è di 1 / 2,5) negli USA la tassazione è minima e non non ci sono politiche di forte disincentivo all’emissione di CO2, -a differenza dell’Europa-: il carbone per la generazione è la fonte più economica e la più inquinante e copre così ancora il 30% della produzione di energia elettrica.
Tuttavia, tale quota è in calo, e il gas nel 2015 per la prima volta supera il carbone come fonte primaria nella generazione (fonte EIA).
Il contributo decisivo a questa riduzione viene dall’area del Nord Est dove le vecchie centrali a carbone, prevalentemente costruite prima degli anni ‘90, vengono sostituite con centrali a gas, molto meno inquinanti. La stessa Pennsylvania, che pure rimane prevalentemente basata sul carbone, ha modificato in modo assai significativo il mix, con una riduzione della generazione da carbone e un aumento prevalentemente della generazione da gas, come si vede nella figura che segue (Fonte EIA).
Infatti, l’abbandono degli Accordi di Parigi intende far pagare dazio anche agli elettori liberal della California e del New England, ma questa vendetta trumpiana si consumerà a livello di parole, molto più che di fatti, come cerchiamo di argomentare.
3. Riuscirà il Grande Minatore a minare gli Accordi di Parigi?
La calata dell’elmetto da minatore sulla permanente di Trump per guidare l’assalto finale agli Accordi di Parigi suona ridicola anche per quella parte degli americani che considerano l’elmetto una questione seria, giusto o sbagliato che sia il conflitto.
Le concessioni estrattive sono in larga misura su proprietà federali, e qui il Grande Minatore può allargare l’offerta cercando di fare un po’ di cassa con le le autorizzazioni. Ma la localizzazione delle centrali è materia di competenza statale e ancor più delle comunità locali, e non vi è alcun motivo di credere che le comunità altamente urbanizzate del New England, della California e dei Grandi Laghi siano intenzionate a tollerare un aumento dell’inquinamento dell’aria per favorire i minatori della Pennsylvania o del Wyoming, e poco importa che i loro voti siano stati importanti per l’elezione di Trump.
Le scelte del Grande Minatore di ridare fiato all’economia del carbone trovano ragioni solo in un miope orizzonte retrò; ne sanno qualcosa alcuni consiglieri del Presidente, compresa la figlia Ivanka: America First a tutela dei minatori del Wyoming e della Pennsylvania suona sinistra per la straordinaria supremazia che l’America si è conquistata negli ultimi decenni con la digital economy. Una straordinaria supremazia tecnologica, economica, culturale e sociale.
L’opportunismo che ha assicurato successo a Trump negli affari non è virtù sufficiente per guidare non gli occidentali, ma anche i soli Stati Uniti, mai così disuniti come oggi di fronte all’abbandono degli Accordi di Parigi. E’ improbabile che gli investitori intendano rivitalizzare le centrali a carbone vecchie, la metà delle quali nell’arco di 15 anni sono destinate ad uscire di scena per obsolescenza tecnica, con la prospettiva di dover affrontare investimenti di depurazione delle emissioni che renderebbero molto meno conveniente la generazione a carbone rispetto al passato.
L’affermazione tricky “I was elected to represent the citizens of Pittsburgh, not Paris” può forse gratificare un’area molto ristretta di cittadini. Ma può il suo perimetro estendersi oltre? Non sembra. Perfino a Pittsburgh, ex capitale del carbone e dell’acciaio, il primo cittadino Bill Peduto ha detto “ Posso assicurarvi che noi seguiremo le linee guida dell’Accordo di Parigi per la nostra gente, la nostra economia e il nostro futuro”. E Michael Bloomberg promette all’ONU i 15 milioni di dollari che verranno a mancare con la defezione degli USA. Non solo, annuncia anche che “gli Americani non se ne stanno andando via dagli accordi di Parigi”. http://fortune.com/2017/06/02/bloomberg-trump-paris-agreement-funding-un/
Fonte: https://projects.fivethirtyeight.com/trump-approval-ratings/
Il confronto della popolarità di Trump (la linea verde) con quella degli altri presidenti (la linea grigia) democratici e repubblicani, nei primi cento giorni di mandato, è devastante per Trump: solo Bill Clinton, che poi si riprese alla grande, riuscì a raggiungere un punto simili di impopolarità, per colpa della sua bulimia di annunci riformistici.
Fonte: https://projects.fivethirtyeight.com/trump-approval-ratings/
Secondo William Galston: “President Trump’s advisers may have suggested that withdrawing from the Paris climate accord would be a popular move. This is what they told him about the firing of FBI Director James Comey, and he seems to have believed it. This could become yet another self-inflicted wound, because vast majorities of Americans want to remain in the Paris accord, including many of Trump’s own supporters.”
L’errore di Trump è sia politico sia economico: sul piano politico fa perdere una area di leadership che proprio con gli Accordi di Parigi gli USA avevano acquisito dopo decenni di disinteresse a livello federale. Sul piano economico, il business ambientale, stimato 1,4 trilioni di dollari viene posto in secondo piano. Ma è anche una strada inefficace: a livello statale e locale l’attenzione ai temi dell’ambiente continuerà a crescere. Tuttavia la sua insistenza su questo tema dimostra la forza delle lobby del fossile, che dispongono di cifre ragguardevoli per introdurre temi e veti a loro convenienti: “As if to confirm this, in the past two weeks the Competitive Enterprise Institute ran 70 ads calling for the United States to leave Paris, over all major media outlets in D.C. The American Petroleum Institute has a $244 million a year budget to influence policy. There are many other fossil fuel firms and groups at work. These private voices creating distraction and delay on the existential problem of our time were heard by our leader, drowning out those of the majority of Americans who support American engagement with the rest of the world in solving this issue”.
(Planetpolicy, Trump’s Paris Agreement withdrawal: What it means and what comes next, William A. Galston, Samantha Gross, Mark Muro, Timmons Roberts, Rahul Tongia, David Victor, and Philip A. WallachThursday, June 1, 2017 https://www.brookings.edu/blog/planetpolicy/2017/06/01/trumps-paris-agreement-withdrawal-what-it-means-and-what-comes-next/).
4. Conclusioni
Ciò che accadrà nei prossimi anni sul piano delle emissioni di CO2 non sarà influenzato in modo rilevante dalle decisioni del Grande Minatore: l’evoluzione della tecnologia da un lato e l’interesse delle popolazioni urbane alla riduzione dell’inquinamento spingeranno anche paesi che erano riluttanti ad accettare gli Accordi di Parigi, come l’India, a procedere speditamente.
Naturalmente la decisione di Trump rende più difficile lo sforzo per raggiungere più ambiziosi traguardi rispetto al business as usual: negli USA lo sforzo ambientalista sarà condotto dai singoli Stati e dalle maggiori Municipalità. Ciò potrebbe perfino aprire nuove prospettive per integrare gli Accordi di Parigi con un set di impegni regole e incentivi a livello locale: un risultato paradossalmente positivo.
A livello internazionale la Cina svolgerà un ruolo di primo piano a tutto tondo. Sarà un ruolo politico internazionale in stretta collaborazione con l’Europa, sarà un ruolo economico e tecnologico, sempre sul piano internazionale, come produttore di sistemi di generazione da fonti rinnovabili. Sarà anche una iniziativa politica al proprio interno, poiché il governo intende dimostrare all’opinione pubblica che l’ambiente è al centro dell’attenzione, come risposta necessaria per stemperare l’impatto dello sviluppo accelerato sulle condizioni di vita delle aree urbane.