“La formula della felicità, fino a questo momento, è consistita nell’eseguire l’operazione consumi fratto desideri. Ma questa è stata una ricetta per il consumismo. Se invece si azzerano i desideri, la felicità tende all’infinito” (Paul Samuelson).
“Un reddito elevato è la migliore ricetta per la felicità di cui abbia mai sentito parlare” (Jane Austen)
La sostenibilità sociale di un sistema previdenziale ne condiziona inevitabilmente la sostenibilità finanziaria. Il reddito, infatti, influenza le scelte di consumo e di risparmio dei lavoratori e dei pensionati, fornisce un contributo decisivo alla crescita economica e al risanamento della finanza pubblica tramite il pagamento dei tributi e rappresenta la condizione che consente la realizzazione di obiettivi redistributivi in chiave solidaristica, tramite la leva fiscale.
Le ipotesi correttive hanno finora riguardato soprattutto il sostegno dei soggetti a più bassa contribuzione e con un inadeguato livello di tasso di sostituzione, attraverso l’ampliamento della contribuzione figurativa con riferimento ai periodi di inoccupazione, mantenendo quindi inalterato l’attuale impianto previdenziale, basato su un primo pilastro pubblico finanziato a ripartizione e un secondo pilastro privato, basato sul meccanismo tecnico – finanziario della capitalizzazione e sussidiato dal sostegno pubblico.
Questo tipo di “solidarietà selettiva” ha consentito di focalizzare l’intervento solidaristico a sostegno delle persone più bisognose, riducendo così l’area del disagio sociale a fronte di oneri più contenuti per l’intera collettività che nel caso di misure di tipo generalista o di interventi “a pioggia”.
Ma i sistemi selettivi sono sostenibili se i casi da sussidiare non presentano frequenze troppo elevate. In altre parole i vantaggi della selettività, in rapporto ai rischi, incontrano un limite evidente nella crescita della platea degli aventi diritto e nell’ampiezza delle situazioni da tutelare.
Naturalmente va verificata la compatibilità dell’intervento selettivo con l’universalità delle prestazioni, nel senso che scelto l’evento da trattare meritoriamente (selettività) il beneficio si applica all’intera platea dei potenziali beneficiari. Altro aspetto delicato riguarda la definizione dei criteri con cui applicare la selettività, soprattutto se questa è legata a criteri di tipo economico o patrimoniale che legano la prestazione alla prova dei mezzi. Sono evidenti i rischi che il fenomeno dei cosiddetti “falsi positivi” comporta in termini di iniquità e di improprio utilizzo delle risorse attribuite, ovvero nel caso di soggetti che, pur non avendone diritto, ottengono benefici tramite dichiarazioni inesatte o fraudolente circa la propria situazione economica o patrimoniale.
Per essere efficaci, dunque, i benefici selettivi devono essere coerenti con gli obiettivi assunti: devono minimizzare le possibilità di comportamenti elusivi o strategici da parte dei potenziali beneficiari e devono il più possibile non interferire con i progetti di vita personali e familiari, in modo da non alterare l’offerta di lavoro.
L’aumento della platea dei potenziali beneficiari dell’intervento selettivo originata dall’evoluzione qualitativa e quantitativa dei bisogni sociali e demografici e l’esigenza di contrastare più efficacemente il rischio di povertà lasciano aperta la “questione previdenziale”. Una questione inaggirabile che deve però misurarsi con l’attuale quadro di finanza pubblica e con le prospettive di crescita del nostro Paese.
I rischi politici di promesse previdenziali troppo generose, che non tengano conto del necessario equilibrio fra l’evoluzione sociale del Paese e la dinamica del mercato del lavoro sono destinati, infatti, a generare nel lungo periodo profondi squilibri nella struttura dei conti previdenziali e scaricano sulle future generazioni gli oneri dei processi di aggiustamento. Qualunque approccio che non tenga insieme sostenibilità finanziaria e sostenibilità sociale è, quindi, destinato ad essere perdente.
L’esigenza di diversificare i rischi e di ridurre quelli di natura politica ha portato anche in Italia all’istituzione di forme di previdenza privata a capitalizzazione, con funzione complementare e non più integrativa come nel passato.
Anche sulla base di tale assunto molti economisti hanno sostenuto la necessità di realizzare una graduale sostituzione dei sistemi a ripartizione con i sistemi a capitalizzazione per contrastare gli effetti della tendenziale riduzione dei tassi di rendimento dei sistemi a ripartizione, la cui dinamica viene considerata meno positiva di quella dei tassi di rendimento dei sistemi a capitalizzazione.
In linea teorica, si può postulare la supremazia di un sistema a capitalizzazione rispetto ad uno a ripartizione se il tasso di rendimento del primo, correlato all’andamento dei mercati finanziari, é superiore alla somma del tasso di crescita della forza lavoro e del tasso di crescita della produttività.
Tuttavia, in prospettiva, l’effetto combinato della crescita del reddito nazionale e del saggio di risparmio potrebbe condurre ad un incremento dell’offerta di risparmio. Questo può tradursi, nel mercato dei fondi mutuabili, in assenza di aumenti esogeni della domanda di investimenti, in una riduzione del tasso di rendimento generale.
Peraltro, l’invecchiamento della popolazione mette in seria difficoltà sia il patto intergenerazionale interno al sistema a ripartizione, agendo sulla compressione della dinamica di crescita del PIL, sia l’equilibrio dei sistemi finanziari a capitalizzazione (su cui si basano i fondi pensione di nuova istituzione), poiché perché il peso crescente della parte di popolazione che non lavora sulla forza di lavoro attiva si ripercuote sui meccanismi di formazione dei prezzi e, in ultima analisi, sui rendimenti dei mercati finanziari.
I vantaggi di un sistema a capitalizzazione non consistono dunque nella maggiore efficacia nel rispondere agli shock demografici rispetto ad un sistema a ripartizione ma, piuttosto, nella capacità di sollecitare un incremento del saggio nazionale di risparmio, influenzando il processo di accumulazione del capitale, e nella capacità di realizzare un maggiore equilibrio nei rischi, riducendo quelli di natura politica.
La riforma della previdenza complementare, entrata in vigore nel 2007, ha prodotto un buon risultato nella grande impresa, ma lascia ancora scoperta la parte più vulnerabile del mondo del lavoro nelle piccole imprese, dove ha pesato la maggiore fragilità del sistema delle relazioni sindacali, la più elevata diffusione delle aziende sul territorio, la maggiore riluttanza dei datori di lavoro a privarsi del TFR, in considerazione di una maggiore difficoltà di accesso al credito sostitutivo e in assenza dell’obbligo, che sussiste invece nelle aziende con almeno 50 addetti, di conferire al fondo di tesoreria gestito dall’Inps il trattamento di fine rapporto non destinato ai fondi
pensione. Nei comparti del pubblico impiego il ritardato avvio dei fondi pensione (se si fa eccezione per il fondo Espero, rivolto ai lavoratori della scuola) determina un deficit di copertura previdenziale difficilmente colmabile.
Nel concorrere alla realizzazione di più elevati livelli di trattamento previdenziale i fondi pensione possono svolgere un ruolo importante nello sviluppo del mercato dei capitali e nella promozione del risparmio. Una scelta che realizza un’adeguata differenziazione dei livelli e della qualità delle prestazioni, corresponsabilizzando i lavoratori in una serie di scelte che vanno da quelle iniziali di adesione, a quelle successive riguardanti il livello della contribuzione, i criteri di investimento delle risorse impiegate, e le modalità di erogazione delle prestazioni finali.
La “volontarietà” delle scelte incontra però limiti insormontabili nelle situazioni in cui asimmetrie informative e problemi di autofinanziamento delle piccole e medie imprese ostacolano lo sviluppo delle adesioni ai fondi pensione.
“L’obbligatorietà” dell’adesione, peraltro, richiederebbe preliminarmente il superamento dei noti problemi di capitalizzazione e di accesso al credito sostitutivo del TFR delle piccole e medie imprese e uno sviluppo armonioso della previdenza complementare e dei mercati finanziari.
Una soluzione salomonica potrebbe consistere in forme di adesione generalizzata alla previdenza complementare promosse dall’azione negoziale collettiva tramite il solo contributo del datore di lavoro che, pur non permettendo il raggiungimento di posizioni previdenziali soddisfacenti, potrebbe consentire alla forma pensionistica complementare di destinazione di promuovere iniziative e comunicazioni mirate nei confronti degli iscritti. Incentivandoli a conferire la loro contribuzione aggiuntiva e il TFR.
Tutte queste considerazioni muovono dalla valutazione che i mutamenti sociali, economici e demografici che investono il nostro Paese non attenuano il ruolo dello Stato ma anzi lo ampliano.
Lo”Stato – apparato” può, infatti, svolgere la sua funzione di riduzione del rischio di povertà in molti modi, anche sussidiando l’economia privata, come nel caso dell’intervento promozionale e incentivante a sostegno dei sistemi di previdenza complementare e della sanità integrativa.
Al tempo stesso – mentre la prospettiva demografica e sociale determina una pressione crescente sullo sviluppo dei sussidi, della contribuzione figurativa e delle maggiorazioni sociali – le esigenze di sostenibilità finanziaria spingono ad una valutazione sempre più discrezionale da parte dello Stato circa l’estensione del livello di solidarietà da garantire universalmente. L’incremento della selettività negli interventi di sussidio o di sostegno, nelle diverse forme possibili, presta peraltro il fianco ai ben noti meccanismi di acquisizione del consenso politico, influenzati dall’azione dei diversi gruppi di interesse.
Peraltro, ad un inasprimento dei criteri selettivi di calcolo delle prestazioni può non corrispondere una proporzionale riduzione della spesa, perché la maggiore specificazione dei benefici e delle condizioni richiede un aumento degli oneri di natura amministrativa, legati alla verifica delle situazioni tutelate, e dei costi del processo di contrattazione politica, dovuti alle diverse modalità di scelta utilizzate nella selezione delle situazioni da agevolare o sostenerei.
L’impianto costruito nell’ormai lontano 1995 è ancora idoneo a rispondere all’evoluzione dei processi demografici, sociali ed economici che ha caratterizzato la società italiana negli ultimi 15 anni?
L’impressione di chi scrive è che vi sia una complessità del mondo del lavoro (partite Iva, lavoro non standard, esigenze di emancipazione femminile, ecc.) che la pensione contributiva e la previdenza complementare, da sole, non sono in grado di sintetizzare.
Per le ragioni sopra analizzate un adeguato livello di copertura pensionistica rappresenta un elemento fondamentale non solo per assicurare l’equità e la coesione socialeii, ma anche per realizzare la stabilità macroeconomica e sostenere la crescita nel lungo periodo.
Di qui l’idea di introdurre una pensione di base di importo eguale per tutti, finanziata essenzialmente tramite il ricorso alla fiscalità generale, da corrispondere a tutti i cittadini al raggiungimento di un requisito anagrafico predeterminato, a prescindere dalle condizioni sociali ed economiche di ciascuno.
In questa legislatura sono state presentate diverse proposte di legge, sia dalla maggioranza politicaiii che dall’opposizioneiv, che prevedono l’istituzione di una pensione di base.
L’introduzione di un pilastro di base di tipo universale potrebbe, almeno parzialmente, sgravare di alcuni obiettivi di solidarietà sociale l’attuale pensione calcolata con il metodo contributivo, finanziata tramite la contribuzione dei lavoratori in attività e maggiormente correlata ai periodi di effettivo lavoro svolti durante la vita attiva.
Il ricorso alla fiscalità generale (almeno in parte, per non aggravare anche il sistema fiscale di troppi obiettivi) per finanziare la pensione di base comporterebbe, inoltre, un ulteriore positivo effetto di natura redistributiva, trasferendo anche a carico dei profitti e delle rendite fiscalmente percossi gli oneri connessi al costo del lavoro che, nel lungo periodo, vengono di fatto traslati dalle imprese sul fattore lavoro, tramite una riduzione del salario netto.
Garantire a tutti gli individui un minimo di reddito nell’età anziana, a prescindere dalle caratteristiche personali di natura socio – economica, rappresenta un intervento di natura generalista meno discorsivo e più rispettoso del mercato, proprio perché ridistribuisce una parte degli incentivi a tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni economiche o lavorative passate.
Ovviamente, tale dividendo generalizzato avrebbe come scopo quello di sostituire l’assegno sociale, alcune maggiorazioni sociali ad esso correlate (ad esempio quelle legate all’età anagrafica e al reddito) e le altre misure di sostegno di natura previdenziale connesse alla vita lavorativa, oggi riconosciute tramite contribuzione figurativa totale o parziale.
Dal punto di vista dell’analisi micro – economica, corrispondere a tutti gli individui un dividendo previdenziale di eguale ammontare potrebbe generare disincentivi impliciti alla maggiore permanenza nel mercato del lavorov oltre a problemi di equità orizzontale, derivanti dalla riduzione dell’effetto reddito connesso alle fasce della popolazione collocate nei decili più avanzati della distribuzione del reddito.
Per ovviare a tali limiti la proposta può essere arricchita, riducendo l’ammontare della copertura di base riconosciuta come “pensione di cittadinanza” e prevedendo un ulteriore erogazione, sempre in cifra fissa, di importo proporzionato alla anzianità lavorativa.
In questo modo, l’ammontare totale della pensione di base erogata sarebbe costituita da una parte fissa (che in linea di massima potrebbe essere di ammontare all’incirca inferiore o al massimo pari all’attuale assegno sociale) e da una variabile, correlata all’anzianità lavorativa (costituita da una somma in forma capitaria, ovvero da una cifra fissa corrisposta per ogni settimana lavorativa svolta indipendentemente dalla tipologia contrattuale di partecipazione al marcato del lavoro). La pensione di base così congeniata non determinerebbe effetti di formulazione (sostituzione) sulle scelte lavorative; non dipenderebbe dalle condizioni socio – economiche o reddituali dei diversi soggetti mentre rifletterebbe nell’importo la diversa durata della vita lavorativa di ciascuno.
A tale “primo pilastro” si aggiungerebbe l’attuale pensione calcolata secondo il metodo contributivo, sgravata parzialmente delle funzioni di sostegno sociale – oggi realizzate essenzialmente tramite la contribuzione figurativa – contribuendo a separare ancora più nettamente gli interventi di natura assistenziale, rispetto a quelli previdenziali.
Infine, completerebbe l’ambito della copertura pensionistica complessiva la previdenza complementare, lasciando ai lavoratori l’ulteriore scelta volontaria di conferire il TFR ai fondi pensionevi.
L’orizzonte politico per affrontare queste sfide è sicuramente stretto. L’impatto, in termini di finanziamento, dell’introduzione di una pensione di base che rifletta la comune cittadinanza al raggiungimento di una determinata anzianità anagrafica dipende, naturalmente, dal livello dell’assegno pensionistico erogato.
Andrebbero, ovviamente, considerati i risparmi derivanti dalla soppressione dell’assegno sociale e dalla riduzione della contribuzione figurativa accordata sulla pensione contributiva.
Per ridurre l’impatto sulla finanza pubblica si potrebbe, inoltre, limitare l’erogazione della pensione di base ai soli cittadini che abbiano conseguito un periodo minimo di partecipazione al mercato del lavoro (continuando a coprire gli altri con gli attuali strumenti di intervento ed assistenza sociale). La pensione di base dovrebbe comunque essere riconosciuta a tutti i lavoratori, a prescindere dalla forma “dipendente” o “indipendente” di partecipazione al mercato del lavoro.
Ciò consentirebbe di corredare la proposta con il completamento del processo di armonizzazione delle aliquote contributive, riducendo la forbice che attualmente sussiste fra il lavoro dipendente, autonomovii o parasubordinato e contribuendo così a “normalizzare” le scelte delle imprese relativamente alle diverse tipologie contrattuali, in relazione alle effettive esigenze dell’organizzazione del lavoro e dei sistemi produttivi e non, come oggi avviene, sulla base del diverso cuneo contributivo.
Nel caso in cui la riduzione di questa forbice, sulla base dell’equilibrio politico trovato, comportasse una riduzione del prelievo contributivo sul salario dei lavoratori dipendenti si potrebbero determinare ulteriori effetti positivi sulla domanda e sull’offerta di lavoro.
L’attuale contingenza economica non aiuta, ma la deriva verso “il fai da te” previdenziale innescata dalla progressiva caduta della copertura previdenziale obbligatoria e dal mancato decollo della previdenza complementare di natura negoziale non è una prospettiva percorribile, né in termini di coesione sociale, tantomeno dal punto di vista macroeconomico.
iSecondo Olson, che ha studiato a lungo l’agire dei vari gruppi di interesse in relazione alle scelte politiche, il rischio di comportamenti opportunistici è elevato quando il beneficio che il singolo riceve dal partecipare all’azione collettiva non è ritenuto trasparente o la sua percezione rimane opaca.M. Olson, The Logic o f Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge 1965
ii In questo senso l’effetto di stabilizzazione dei redditi risponde anche ad una maggiore esigenza di coesione sociale e, in ultima analisi, a considerazioni di tipo “hobbesiano”. La teoria dello Stato minimo di Hobbes riconosceva la necessità di beni pubblici abilitanti non sulla base di principi di equità ma sul timore dell’anarchia e delle conseguenze che i conflitti sociali avrebbero potuto comportare.
iiiLa proposta di legge delega On. Cazzola – DDL n. 3035. E’ stata presentata alla Camera dei deputati l’11 dicembre 2009.
ivLe proposte di legge dell’On. Santagata – DDL n. 3268., presentata il 3/3/2010, e il disegno di legge del Sen. Treu – DDL n. 1958, presentato il 13/1/2010, sono di analogo tenore rispetto alla proposta dell’On. Cazzola.
vGli effetti disincentivanti dell’offerta di lavoro realizzati da trattamenti pensionistici non perfettamente correlati all’anzianità contributiva volta raggiunti i requisiti di età per l’accesso al pensionamento sono ben illustrati da Brugiavini A. (1999), Social Security and Retirement in Italy, in J. Gruber e D. Wise (a cura di), Social security and retirement around the world, NBER, The University of Chicago Press, Chicago and London
viPer una puntuale ricognizione sulle prospettive di sviluppo della previdenza complementare si veda l’elaborato dello stesso autore “Il ruolo delle fonti istitutive nel rilancio dei fondi pensione”, pubblicato in Osservatorio giuridico Mefop 26/2011
vii In questo lavoro non ci soffermiano sulle proposte di segno diverso contenute nel disegno di legge del Sen. Ichino – DDL n. 1540, presentato il 29/4/2009, che rivedono la disciplina previdenziale per il lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata di cui all’art. 2 c. 26 legge 335/1995, finalizzate ad una riduzione delle relative aliquote contributive e l’ipotesi di opting out dalla previdenza obbligatorio alla complementare. Proposte, peraltro, in controtendenza con le stesse scelte adottate nella precedente legislatura dal Governo Prodi.