“Tutto il sapere non è altro che il perfezionamento del pensare quotidiano” (Albert Einstein)
Premessa
Lo sviluppo della previdenza complementare ha subito una battuta d’arresto negli ultimi anni, complici gli effetti della crisi finanziaria e l’esaurirsi della spinta propulsiva delle parti istitutive dei fondi pensione negoziali.
Nonostante i fondi pensione siano riusciti a contenere gli effetti negativi e a garantire la sicurezza dei portafogli gestiti nel loro complesso1, l’andamento critico dei mercati finanziari si é tradotto in un forte elemento dissuasivo nei confronti delle scelte di adesione dei lavoratori..
Ha, al contrario, pesato positivamente la irreversibilità della scelta di adesione che ha evitato il rischio di uscite repentine degli aderenti con conseguente depauperamento dei patrimoni accumulati.
In secondo luogo l’effetto di propagazione della crisi finanziaria sull’economia reale ha spinto il Governo a concentrare l’attenzione sulla difficile congiuntura economica.
La selettività della politica economica a difesa della stabilità finanziaria e creditizia e della capacità produttiva delle imprese e l’esigenza di concentrare gli interventi prioritariamente al sostegno del reddito dei lavoratori inoccupati o momentaneamente sospesi hanno determinato un calo di attenzione rispetto ad altri settori caratterizzati da una prospettiva di intervento di più ampio respiro temporale.
Ma anche l’attenzione sul tema delle parti sociali, dopo il raggiungimento di elevati livelli di adesione nei settori con più alto tasso di sindacalizzazione, ha subito una battuta d’arresto, complici la minore capacità di penetrazione informativa nei settori della piccola e media impresa e gli ostacoli che ivi si frappongono allo smobilizzo del TFR dei dipendenti verso la previdenza complementare.
1.Lo stato dell’arte dello sviluppo della previdenza complementare e i fattori di maggiore criticità
Le adesioni dei lavoratori dipendenti alla previdenza complementare alla fine del 2010 hanno superato i 3,8 milioni, con un incremento del 4,2%, rispetto all’anno precedente.
Ma mentre i lavoratori dipendenti iscritti ai fondi pensione negoziali hanno subito un arretramento rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente (- 1,6%), il numero di lavoratori dipendenti iscritti ai “nuovi” PIP è cresciuto del 30,4%, passando da 544.832 iscritti di dicembre 2009 ai 710.477 del dicembre 20102.
Nello stesso periodo sono aumentati anche i lavoratori dipendenti iscritti ai fondi aperti (+ 3,4%).
In sintesi, il consolidamento della previdenza complementare ha raggiunto e massimizzato i livelli di adesione attesi nella grande impresa laddove la presenza del sindacato organizzato ha consentito l’esercizio di un’azione informativa capillare, mentre più limitato è stato il risultato realizzato nelle piccole e medie imprese.
Questa tendenza, più che confermare il maggiore dinamismo dei soggetti promotori dei PIP, sembra evidenziare una battuta d’arresto delle parti istitutive delle forme pensionistiche complementari di natura negoziale nei settori a maggiore diffusione territoriale d’impresa, dove gli strumenti disponibili per l’iniziativa sindacale di promozione e sostegno allo sviluppo della previdenza complementare sono minori che nella grande impresa, in considerazione delle ridotte prerogative sindacali3.
Anche la crescita delle adesioni alle forme pensionistiche individuali non ha, sostanzialmente, migliorato il livello di copertura complementare complessivo dei settori caratterizzati da bassi livelli di adesione, contrariamente a chi ritiene il problema risieda nelle differenze ancora esistenti nella disciplina legislativa che regola le condizioni di accesso alle diverse tipologie di previdenza complementare.
Semmai, lo stallo dello sviluppo della previdenza complementare potrebbe dipendere proprio da una perdita “identitaria” delle caratteristiche delle diverse forme pensionistiche.
Infatti, la deriva della normativa verso una sostanziale uniformità e omogeneità della regolamentazione di settore ha finito per produrre, progressivamente, comportamenti imitativi fra le diverse forme pensionistiche complementari collettive ed individuali, sia nell’adozione dei modelli gestionali, sia con riferimento alle scelte di investimento.
Questo atteggiamento emulativo da un lato ha ridotto fortemente le caratteristiche di differenziazione dell’offerta previdenziale; dall’altro ha spostato la concorrenza esclusivamente sui fattori di costo e sugli oneri della gestione.
Anche un’eccessiva limitazione qualitativa delle classi di attività e delle diverse tipologie di investimento utilizzabili dai fondi pensione può rappresentare un ulteriore elemento di inefficienza gestionale, specie se il contenimento dei rischi finisce per basarsi esclusivamente sull’obiettivo, per ciascuna linea di investimento istituita, di realizzare risultati quanto più possibile in linea con i parametri di riferimento adottati per la comparazione (benchmark), senza ulteriori elementi di analisi e di gestione del rischio.
La tendenza a confrontare i risultati del processo di investimento su un orizzonte temporale di breve periodo è foriero di allocazioni inefficienti del portafoglio investito. I tempi e le semplificazioni del processo mediatico ed informativo non sempre sono coerenti con gli obiettivi ed il respiro di lungo periodo che dovrebbe assumere un investimento di carattere previdenziale.
L’adozione di criteri di investimento più flessibili ed adeguati alle caratteristiche socio – economiche e demografiche degli iscritti e alla finalità sociale delle forme stesse potrebbe determinare modelli di gestione meno passivi rispetto a quelli attuali.
L’introduzione di strumenti e procedure di analisi e controllo dei rischi potrebbe, inoltre, rispondere all’esigenza di una maggiore diversificazione degli investimenti e di massimizzazione dei rendimenti netti nel lungo periodo, consentendo un maggior grado di libertà nelle scelte e rafforzando l’effettività della protezione del patrimonio gestito.
2.Due modelli a confronto
Questa fase pioneristica di costruzione dei modelli gestionali è, dunque, di fronte ad un bivio. Le scelte alternativamente possibili sono almeno due: l’una, propende per modelli e schemi analoghi a quelli adottati da altre forme del risparmio gestito; l’altra è quella di caratterizzare la gestione delle forme pensionistiche sulla peculiarità dell’obiettivo finale, ovvero la soddisfazione della promessa previdenziale fatta agli iscritti, massimizzando quanto più possibile la pensione complementare attesa, tramite scelte di investimento orientate al principio di “prudenza” e che non compromettano il risparmio raccolto durante tutto l’arco della vita lavorativa.
Questo secondo modello appare, peraltro, maggiormente in linea con lo spirito originario delle parti sociali che aveva ispirato l’istituzione dei fondi pensione e che ha caratterizzato l’iniziativa di promozione e sostegno allo sviluppo della previdenza complementare, realizzata tramite la contrattazione collettiva.
Il sistema della previdenza complementare, così come scaturito dal decreto legislativo 124/93 e dal successivo decreto legislativo 252/05, si caratterizza per la centralità del ruolo svolto dalle fonti istitutive dei fondi pensione nella definizione delle differenti modalità di adesione e partecipazione dei lavoratori alle forme pensionistiche complementari.
I contenuti e l’articolazione delle forme pensionistiche possono, infatti, variare anche significativamente in relazione ai contenuti e all’articolazione delle fonti istitutive, con particolare riferimento alle caratteristiche del bacino dei potenziali destinatari, dei settori produttivi e dei sistemi di relazioni sindacali di origine.
Questa ultrattività della contrattazione collettiva nel regolare e definire i limiti e le modalità di partecipazione dei lavoratori alle forme pensionistiche complementari ha giustificato il “favor” accordato dal legislatore alla contrattazione collettiva.
Tuttavia, dopo una fase pionieristica che si è contraddistinta per l’ampia libertà della contrattazione collettiva di definire i propri bacini di utenza, le modalità di adesione e di collocamento, le forme e i contenuti della partecipazione dei lavoratori ai fondi pensione, i limiti territoriali d’azione, i contenuti della promozione e del sostegno all’iniziativa previdenziale, gli ultimi anni si sono caratterizzati per una sostanziale riduzione degli elementi di differenziazione dell’offerta previdenziale, concentrando l’attenzione sulle modalità di finanziamento della previdenza complementare e di copertura degli oneri di amministrazione e gestione.
Il principio di “favor” per la contrattazione collettiva ha subito un ulteriore rafforzamento con l’operatività del meccanismo del “silenzio assenso”. La nuova disciplina della previdenza complementare, infatti, prevede che le modalità tacite di adesione alla previdenza complementare operino secondo una precisa “gerarchia” nella sequenza delle fonti, che privilegia gli accordi raggiunti a livello aziendale. La norma, infatti, stabilisce che nel caso in cui il lavoratore entro sei mesi dalla data di prima assunzione non esprima alcuna volontà, a decorrere dal mese successivo alla scadenza del termine suddetto il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un diverso accordo aziendale che preveda la destinazione del TFR a una forma collettiva tra quelle previste all’articolo 1, comma 2, lettera e), n. 2), della legge 23 agosto 2004, n. 243.
Il principio di favor opera anche con riferimento alla definizione dei limiti e degli ambiti della portabilità del contributo a carico del datore di lavoro previsto dalla contrattazione collettiva. Infatti, la normativa stabilisce che nel caso in cui il lavoratore intenda contribuire alla forma pensionistica complementare a cui ha conferito tacitamente o esplicitamente il proprio TFR maturando e qualora abbia diritto, in base al contratto o agli accordi collettivi, ad un contributo a carico del datore di lavoro, questo affluirà alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai predetti contratti o accordi.
Tale disposizione, peraltro, è norma di scopo che non disegna un puro o semplice indirizzo programmatico. La norma impegna, infatti, i medesimi contratti o accordi collettivi – che vincolano i datori di lavoro al finanziamento della previdenza complementare – a definire i confini e le modalità entro le quali la portabilità di tale contributo potrà utilmente dispiegarsi.
Argomenti contrari alla possibilità della contrattazione collettiva di vietare senz’altra previsione la portabilità del contributo contrattuale posto a carico del datore di lavoro verso forme pensionistiche diverse da quelle da essa stessa istituite o promosse sono stati mossi anche con riferimento all’esigenza di realizzare il principio di libera concorrenza nel mercato dei servizi finanziari promosso dal decreto legislativo 252/05.
Tuttavia, per il diritto sindacale e del lavoro le obbligazioni previste dai contratti collettivi valgono esclusivamente tra e per le parti contemplate nel contratto, e non per soggetti “terzi”.
I soggetti abilitati all’istituzione dei fondi aperti (banche, società di gestione del risparmio ed imprese di assicurazione) e dei P.i.p. attuati tramite stipula di contratti di assicurazione sulla vita hanno più richiesto la modifica dell’attuale normativa nel senso di “lasciare alla piena volontà del lavoratore la portabilità del contributo del datore di lavoro, per realizzare un libero, ampio e concorrenziale mercato della previdenza complementare”4.
Una norma giuridica siffatta, peraltro, oltre che intaccare il principio dell’autonomia contrattuale risulterebbe inefficace di fronte alla volontà delle fonti istitutive di non prevedere per il futuro finanziamenti o vincoli di destinazione di risorse contrattuali a beneficio della previdenza complementare, che porterebbe ad una sostanziale regressione dell’impegno collettivo.
3.La contrattazione come “bene pubblico meritorio abilitante”
L’attività promozionale e di sostegno della contrattazione collettiva alla previdenza complementare non si esaurisce con il vincolo di destinazione di finanziamenti e contributi a beneficio dei lavoratori aderenti ma si esplica in una pluralità di strumenti che, nella varietà delle previsioni contrattuali e dei sistemi di relazioni sindacali, concorrono ad agevolare le adesioni e a migliorare i livelli di servizio e le prestazioni erogate, riducendo considerevolmente l’onerosità dei processi amministrativi e gestionali. In questo senso l’iniziativa delle parti sociali può essere considerata come un “bene pubblico meritorio abilitante5”. Infatti, il risultato della contrattazione o l’azione delle parti sociali determina un abbattimento consistente degli oneri di gestione amministrativa e finanziaria.
Inoltre, chi si iscrive ad una forma pensionistica complementare di natura associativa (istituita quindi dai contratti o dagli accordi collettivi) produce anche economie esterne positive a favore degli altri iscritti.
Anche nella fase del collocamento l’iniziativa delle parti sociali genera risultati particolarmente positivi per gli aderenti.
L’attività di promozione alla previdenza complementare curata dai dirigenti delle organizzazioni sindacali, dai rappresentanti sindacali aziendali e dai patronati eventualmente incaricati dal fondo contribuisce, infatti, a sviluppare la raccolta delle adesioni e a diffondere l’informazione e la cultura previdenziale, senza produrre oneri aggiuntivi per l’attività di collocamento a carico degli aderenti..
Le motivazioni sopra esposte risultano, pertanto, sufficienti a giustificare, sul piano analitico, la presenza, di norme in cui lo Stato può riservare alle forme pensionistiche complementari istituite o promosse dai contratti o dagli accordi collettivi diritti di prelazione o principi di “favor”, sapendo che la competitività non regolata porterebbe a sprechi inaccettabili dal punto di vista sociale.
In sostanza, più si accentua la funzione sociale delle forme pensionistiche complementari, maggiormente se ne giustifica il sostegno sul piano legislativo.
4.Emulare non sempre conviene
La riforma della previdenza complementare e l’entrata in vigore del D. lgs 252/05, hanno favorito un atteggiamento imitativo fra le diverse tipologie delle forme pensionistiche complementari, con la tendenza delle stesse fonti istitutive a non discostare eccessivamente, le une rispetto alle altre, le modalità promozionali e di sostegno previste.
Le esigenze di uniformità della regolamentazione e la spinta anche mediatica verso una costante comparazione dei risultati raggiunti dalle diverse tipologie di fondi pensione ha determinato una progressiva deriva una reciproca imitazione degli assetti organizzativi e gestionali e delle scelte d’investimento.
L’atteggiamento imitativo, specie nell’adozione delle gestioni multi comparto da parte dei fondi pensione di natura negoziale rispetto alle altre tipologie di fondi pensione e la sostanziale tendenza dei gestori ad adottare stili passivi (ovvero stili di gestione finanziaria che tendono a “replicare” il benchmark di riferimento) ha finito per individuare negli oneri di natura amministrativa e gestionale i principali indicatori di efficienza e competitività.
Questa tendenza, limitando i confini e gli ambiti di intervento delle fonti istitutive nelle scelte organizzative e nella definizione degli obiettivi e dei modelli gestionali dei fondi pensione finisce per ridurre anche le potenzialità sociali delle iniziative previdenziali promosse nei vari comparti.
Le parti sociali devono ora riflettere sull’opportunità, dopo una fase pionieristica che le ha caratterizzate anche per l’impegno profuso nell’individuazione dei soggetti designati negli organi di amministrazione, direzione e controllo, di riqualificare le iniziative previdenziali connesse ai fondi pensione istituiti nei diversi comparti e settori produttivi.
Se è vero che i fondi pensione istituiti dai contratti e dagli accordi collettivi si caratterizzano per una più spiccata finalità sociale rispetto alle altre tipologie di fondi e prodotti previdenziali, tale finalità va valorizzata e rafforzata sul piano delle scelte e dei contenuti.
5.Un ritorno…al futuro
Per “chiudere” il cerchio e favorire lo sviluppo della previdenza complementare nei settori produttivi e nelle realtà nelle quali il livello delle adesioni si è rivelato assolutamente insoddisfacente le parti sociali devono riprendere quella spinta propulsiva che ne aveva caratterizzato l’attività durante la fase di avvio dei fondi pensione.
Si tratta di partire dagli elementi di maggiore criticità ma anche dalle esperienze di successo per rimodulare le caratteristiche di offerta delle diverse forme pensionistiche complementari, tenendo conto: delle specificità dei settori di riferimento; delle caratteristiche economiche e socio – anagrafiche delle imprese e dei lavoratori coinvolti; delle finalità delle differenti iniziative previdenziali; dell’esigenza di trovare un equilibrio adeguato fra gli obiettivi di semplificazione e quelli di diversificazione delle facoltà di scelta concesse ai potenziali aderenti, in relazione alle modalità di finanziamento, alle linee di investimento e alle prestazioni principali ed accessorie.
Lo sviluppo della previdenza complementare richiede, dunque, non soltanto di saper collocare meglio l’offerta previdenziale connessa ai differenti fondi pensione ma anche di diversificare la risposta collettiva in relazione alle esigenze e alle caratteristiche dei potenziali aderenti..
La riuscita di questo processo risiede in un rinnovato impegno delle organizzazioni sindacali a sostegno dell’attività promozionale dei fondi pensione; nell’adozione di soluzioni contrattuali innovative che agevolino il collocamento e l’adesione dei lavoratori, riducendo gli ostacoli e gli oneri che ancora si frappongono all’esercizio delle loro libere e consapevoli scelte; nella capacità di ampliare l’insieme dei servizi e delle prestazioni di carattere accessorio offerte; nella possibilità che anche le scelte legate ai profili di investimento e all’universo investibile siano maggiormente calibrate sulla finalità previdenziale e, dunque, su impieghi nelle diverse classi di attività finanziarie che assumano un orizzonte temporale di più lunga durata.
Non esistono soluzioni ideali valide per tutte le realtà e per tutti i settori. Si possono, però, avanzare alcune proposte ed individuare alcune soluzioni che possono essere messe a disposizione del sistema delle relazioni sindacali. Un “mix” di proposte operative dal quale le parti sociali possono, in relazione alle caratteristiche e alle esigenze dei diversi settori produttivi e dei diversi territori, pescare quelle più appropriate per comporre un’offerta previdenziale socialmente ed economicamente sostenibile per i lavoratori e le imprese.
5.1.Quando il TFR non è disponibile
Il TFR rappresenta per le imprese italiane una fonte di autofinanziamento a basso costo che continua a permanere nel caso di aziende con meno di 50 addetti, laddove non sussiste l’obbligo di conferire il TFR non destinato alla previdenza complementare al Fondo di Tesoreria gestito dall’INPS.
Il conferimento del TFR ai fondi pensione rappresenta, quindi, una barriera implicita all’accesso dei lavoratori alla previdenza complementare, soprattutto a causa delle difficoltà e degli elevati oneri per l’accesso al credito che le piccole e medie imprese sopportano. Oneri variamente differenziati in ragione dei contesti territoriali, dei settori produttivi di appartenenza, delle condizioni patrimoniali e reddituali delle imprese medesime.
A frenare le potenzialità di sviluppo della previdenza complementare nelle PMI vi è, inoltre, la più elevata parcellizzazione del dato aziendale e la maggiore riluttanza dei lavoratori a privarsi del TFR in un contesto economico meno favorevole (basso dato medio retributivo pro capite per addetto ed elevata turnazione e mobilità del lavoro).
Uno dei settori in cui queste caratteristiche risultano particolarmente evidenti è quello delle costruzioni, dove l’elevata mobilità occupazionale esalta la natura previdenziale del TFR come elemento di sostegno al reddito nelle fasi di inoccupazione.
Per superare questi ostacoli le Parti istitutive di Prevedi hanno raggiunto un accordo in forza del quale nel settembre 2010 la Covip ha autorizzato il fondo pensione a raccogliere le adesioni senza il conferimento del Tfr.
Una soluzione che, tenuto conto della specificità del settore potrebbe agevolare lo sviluppo della previdenza complementare nel settore edile, in attesa di tempi migliori.
5.2.Se la buonuscita diventa un ostacolo
La previdenza complementare nei comparti del pubblico impiego è in via di ampliamento con l’istituzione di due nuovi fondi pensione che si aggiungeranno ad Espero.
I ritardi fin qui accumulatisi nel completamento dell’offerta complessiva della previdenza complementare rivolta ai pubblici dipendenti limitano la possibilità di questi ultimi di conseguire adeguati livelli di copertura previdenziale nell’età anziana.
Questo ritardo è in gran parte dovuto alla mancata applicazione del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n.252 ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, sia con riferimento alla non operatività del meccanismo del silenzio assenso per i lavoratori di nuova assunzione, sia con riguardo alla mancata estensione ai dipendenti pubblici dei benefici fiscali previsti dalla riforma vigente dal 1° gennaio 2007.
Un ulteriore elemento critico è potenzialmente rappresentato dal vincolo che obbliga i lavoratori già in servizio alla data del 31/12/2000, ai fini dell’adesione ai fondi pensione di comparto con il conferimento del TFR, ad effettuare l’opzione di passaggio dal TFS al TFR.
Sussiste, infatti, una inesatta percezione da parte dei pubblici dipendenti delle compensazioni previste dalla legge in caso di esercizio del diritto di opzione per il passaggio da TFS a TFR (contributo figurativo dell’1,5% sulla base contributiva di riferimento ai fini TFS per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche iscritti all’INPDAP)
Gli incentivi impliciti all’esercizio dell’opzione sono, peraltro, aumentati a seguito dell’entrata in vigore della legge 122/2010 che ha previsto che il computo dei trattamenti di fine servizio sulle anzianità contributive maturate dal 1° gennaio 2011 si effettua secondo le regole per il calcolo del TFR, con l’applicazione dell’aliquota del 6,91%.
Basteranno le nuove condizioni a rimuovere i pregiudizi dei pubblici dipendenti nei confronti della previdenza complementare e a convincerli che optare per il passaggio da TFS a TFR, con il successivo conferimento (virtuale) di quest’ultimo alla previdenza complementare conviene?
C’è chi ha pensato6 ad una soluzione diversa che consentirebbe l’adesione ai fondi pensione dei dipendenti pubblici, ancora in regime di TFS, senza il conferimento del TFR e, quindi, senza la necessità dell’opzione. Una soluzione che circondata di opportune cautele (si potrebbero, ad esempio, prevedere vincoli di destinazione alla previdenza complementare di quote parte del TFS al momento della cessazione del rapporto di lavoro, in modo da costituire posizioni previdenziali complementari più robuste) potrebbe risultare decisiva per incentivare le adesioni ai fondi pensione di comparto dei lavoratori pubblici assunti prima del 1/01/2001.
5.3.Adesione libera o generalizzata?
Se nei settori altamente sindacalizzati o della grande impresa le prerogative concesse alle rappresentanze sindacali sono sufficienti a determinare un contesto favorevole allo sviluppo delle iniziative promozionali e di sostegno della previdenza complementare e alla diffusione dell’informazione, nella piccola impresa occorrono strumenti informativi e di comunicazione che tengano conto della specificità del dato economico, della maggiore parcellizzazione aziendale e della straordinaria diffusione delle imprese sul territorio.
Fra le soluzioni contrattuali particolarmente innovative che possono essere utilizzate per raggiungere i il complesso dei destinatari della forma pensionistica complementare c’è l’adesione generalizzata per via contrattuale con il solo contributo del datore di lavoro.
In pratica si tratta di prevedere un obbligo contrattuale di contribuzione posto a carico del datore di lavoro con riferimento a ciascun dipendente al quale si applica il medesimo contratto o accordo collettivo.
Questa soluzione favorirebbe l’adesione generalizzata dei lavoratori al fondo previsto dall’accordo o dal contratto collettivo di riferimento, salva la possibilità di manifestare una diversa volontà che farebbe venire meno il conferimento del contributo da parte del datore di lavoro e, conseguentemente, l’adesione.
Al fine di evitare che la scelta del lavoratore di non aderire al fondo pensione possa, però, comportare il venire meno del relativo onere a carico del datore di lavoro, determinando l’esercizio di azioni dissuasive da parte di quest’ultimo nei confronti del lavoratore interessato, si potrebbe prevedere il mantenimento dell’obbligo contributivo a carico del datore di lavoro anche in assenza di adesione, con destinazione delle relative risorse verso iniziative di solidarietà, a beneficio dei lavoratori che abbiano già aderito al fondo pensione, oppure al finanziamento di piani di proselitismo e di raccolta delle adesioni promossi dalle parti istitutive o dal fondo stesso.
La proposta, infine, dovrebbe essere strutturata in modo da non comportare limitazioni alla facoltà del lavoratore di conferire il proprio contributo e il TFR maturando alla medesima forma pensionistica.
Il versamento del solo contributo a carico del datore di lavoro per ciascun lavoratore al quale si applica il contratto collettivo, in assenza di un’ulteriore contribuzione a carico del lavoratore e del conferimento del tfr maturando, non consente il raggiungimento di posizioni maturate soddisfacenti.
Ma, stante l’adesione generalizzata la forma pensionistica complementare potrebbe strutturare iniziative e comunicazioni mirate nei confronti degli iscritti, con l’obiettivo di ridurre le asimmetrie informative e l’insufficiente consapevolezza circa le opportunità offerte dalla previdenza complementare, inducendoli al conferimento di una contribuzione aggiuntiva e del TFR.
5.4. Quando mutualizzare conviene
Un altro dei campi nel quale l’iniziativa della contrattazione a sostegno della previdenza complementare può utilmente dispiegarsi è quello della mutualizzazione di alcuni oneri di amministrazione o gestione dei fondi pensione istituiti e promossi dai medesimi accordi o contratti collettivi di diritto comune, da porre a carico della bilateralità o direttamente delle imprese.
Ma la mutualizzazione può operare verso una pluralità di direzioni. Ad esempio si può decidere che parte delle risorse mutualizzate venga destinata a soltanto a beneficio di alcune categorie di lavoratori aderenti (per esempio lavoratori a basso reddito, o che abbiano subito sospensioni del rapporto di lavoro, ecc.), incrementando le loro posizioni previdenziali complementari. Un altro ambito di intervento innovativo potrebbe consistere nel destinare parte delle risorse individuate dalla contrattazione e/ o degli oneri mutualizzati al finanziamento di fondi di rotazione destinati ad abbattere gli oneri per la contro assicurazione delle garanzie concesse dai consorzi fido, in caso di concessione alle imprese di un credito sostitutivo del TFR dei dipendenti conferito alla previdenza complementare.
5.5.Quali prestazioni accessorie?
La contrattazione può anche allargare l’ambito delle tutele previste dai fondi pensione verso ulteriori ambiti di intervento nello Stato sociale, qualificando meglio e differenziando l’offerta integrativa destinata agli iscritti
Ad esempio, per gli aderenti a Fonchim, Fondenergia, Fiprem e Foncer già ora molti contratti collettivi di riferimento prevedono la copertura assicurativa per l’invalidità permanente e la premorienza, finanziata tramite il versamento, in aggiunta alla aliquota contributiva, di un piccolo contributo mensile a totale carico delle Aziende
5.6.Se la coperta è troppo corta
Ma quando la coperta è troppo corta e le risorse disponibili per il finanziamento della previdenza complementare si riducono i contratti e gli accordi collettivi possono effettuare scelte selettive e mirate.
Nel settore del lavoro somministrato, nel periodo di vigenza del CCNL stipulato il 24 luglio 2008, le Parti hanno stabilito che l’Ente Bilaterale finanzierà la posizione previdenziale dei lavoratori somministrati che decideranno di aderire a Fontemp, attraverso una contribuzione fino al 4% della retribuzione di riferimento (che coprirà sia la contribuzione base a carico .del datore di lavoro che quella a carico del lavoratore). In questo caso la sfida è quella di rendere la previdenza complementare effettivamente disponibile e conveniente anche per quei lavoratori (come quelli somministrati), tramite un sostegno della bilateralità che colmerà l’insufficiente contribuzione che si sarebbe originata a causa di missioni di lavoro di durata troppo breve nell’anno.
In altri casi si possono utilizzarle esperienze già avviate con alcune leggi regionali a sostegno della previdenza complementare, attualizzandole e valorizzandole per gli scopi e le finalità della contrattazione collettiva.
Ad esempio si può stabilire l’incremento della contribuzione aggiuntiva posto a carico del datore di lavoro per determinate categorie di lavoratori, oppure versamenti una tantum da effettuare al verificarsi di talune situazioni della vita privata o professionale (nascita di un figlio, congedo parentale, intervento della cassa integrazione guadagni)7.
5.7. Mono – comparto o multi comparto?
Il modello “previdenza complementare di natura negoziale” sopra delineato si basa su una maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento delle parti, non solo nella fase promozionale e di sostegno dei fondi pensione, ma nell’individuazione, tramite le fonti istitutive, degli obiettivi sociali che caratterizzano la promessa pensionistica, dei criteri e delle modalità che indirizzano le scelte gestionali, delle tipologie di investimento che garantiscano la sicurezza, la qualità e la redditività del portafoglio nel suo complesso, in considerazione delle caratteristiche socio – economiche e anagrafiche della popolazione di riferimento, dei fabbisogni di liquidità e delle esigenze di diversificazione dei profili di rischio – rendimento.
Non si può non osservare che in questa prima fase di attività i fondi pensione negoziali hanno progressivamente ricalcato i modelli gestionali adottati dai fondi aperti e dai P,i.p. con lo scopo di ampliare le scelte disponibili per i propri aderenti..
Peraltro, se si osserva la distribuzione dei lavoratori aderenti ai fondi pensione nelle diverse linee di investimento, si rileva una massiccia concentrazione nei comparti caratterizzati da un profilo rischio – rendimento più prudente. Ma, l’impossibilità di strutturare sistemi di (effettiva) verifica dell’appropriatezza ed adeguatezza delle scelte degli aderenti finisce per scaricare su questi ultimi gran parte dei rischi dell’investimento. Tanto più che, successivamente alla scelta iniziale o di default, il passaggio tra i vari comparti è poco utilizzato e il timing finisce per non essere efficiente, specie a monte e a valle di periodi di in cui si verificano forti e prolungate oscillazioni dei mercati.
Se lo scopo è quello di proteggere il risparmio raccolto, investendo le attività finanziarie nel miglior interesse dei propri aderenti, il criterio di massimizzazione dei risultati attesi potrebbe ritenersi compreso nell’obiettivo più generale di protezione sociale, per evitare che l’impegno individuale e collettivo – tramite la destinazione di contributi a carico del lavoratore e delle imprese – sia adeguatamente protetto, valorizzando nel contempo le finalità collettive dell’iniziativa previdenziale connessa a ciascun fondo pensione negoziale.
Ciò potrebbe segnare, se non il ritorno a modelli gestionali “monocomparto”, quantomeno una maggiore attenzione delle fonti istitutive nel promuovere e valorizzare, fra le differenti linee di investimento proposte ai potenziali aderenti, la proposta di investimento che meglio risponde alla finalità sociale.
Tale “favor” da parte delle fonti istitutive nei confronti di una determinata linea di investimento potrebbe concretamente realizzarsi mediante condizioni di accesso semplificate o di maggior favore per gli aderenti, in termini di ridotti oneri amministrativi e gestionali o tramite la destinazione di finanziamenti aggiuntivi previsti dalla contrattazione collettiva.
La linea di investimento “politicamente” prescelta dovrebbe privilegiare scelte gestionali che adottano una migliore diversificazione degli impieghi (pure a normativa vigente) e dei rischi, riducendo la dipendenza dai rendimenti degli investimenti tradizionali, potenzialmente poco attrattivi per chi è chiamato a gestire in orizzonti temporali di lungo termine.
Si supererebbe cosi l’attuale tendenza dei fondi pensione a strutturare linee di gestione che privilegiano classi di attività e benchmark di riferimento “similari”, sgravandoli dalla ricerca ossessiva, nel breve periodo, di risultati comparabili con quelli delle altre forme pensionistiche complementari8.
Conclusioni
La sostenibilità sociale e finanziaria del sistema previdenziale dipenderà sempre di più dall’equilibrio fra la pensione pubblica obbligatoria e quella complementare privata9.
L’attuale assetto “duale”, nell’attuale configurazione della distribuzione degli aderenti per settori produttivi, ha finora escluso dal sistema i lavoratori della piccola e media impresa e del pubblico impiego e rischia di minare alla radice la coesione sociale e la capacità dei fondi pensione di realizzare la finalità loro assegnata dal legislatore.
In attesa che vengano tempi migliori e che la classe politica assuma lo sviluppo della previdenza complementare come una priorità dell’azione di politica economica e sociale, senza scaricare sulle future generazioni (elettoralmente oggi poco rappresentate) il rischio di un’insufficiente copertura previdenziale nell’età anziana, spetta alle parti sociali il compito di riconsiderare l’ottica della solidarietà, anche tramite un decisivo rafforzamento della mutualità integrativa e dell’intervento sussidiario10
NOTE
1 Il rendimento medio generale netto dei fondi pensione negoziali si é attestato, nel periodo Dicembre 2009 – Dicembre 2010, al 3%, a fronte di una rivalutazione netta del TFR del 2,6%(Dati Covip, La previdenza complementare – principali dati statistici, Gennaio 2011); nel periodo 2003 – 2010 il rendimento medio netto dei fondi pensione negoziali è stato pari al 3,5%, a fronte di una rivalutazione media del TFR, al netto dell’imposta sostitutiva, pari al 2,6% nel medesimo periodo di riferimento (elaborazioni nostre su dati Covip)
2 Dati Covip, La previdenza complementare – principali dati statistici, Gennaio 2011
3 La differenziazione delle prerogative e dei diritti sindacali e l’applicazione del titolo III dello Statuto del lavoro nelle sole unità produttive che occupano più di 15 dipendenti limitano l’iniziativa di collocamento e le potenzialità di intervento delle parti sociali nelle piccole imprese.
4 Audizione del Direttore Generale dell’ANIA, Dott. Paolo Garonna del 30 marzo 2011 presso la VI Commissione permanente Finanze della Camera dei Deputati, Indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari
5 La definizione è dello stesso autore in “Le pensioni complementari in Italia”, pubblicato per i tipi del Cenform in Il lavoro pubblico, nota n° 84 del 15 dicembre 2005
6 Camera dei Deputati, Proposta di legge n° 2611 recante “Modifiche al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, e all’articolo 74 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, concernenti l’applicazione delle disposizioni in materia di forme pensionistiche complementari ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni “ presentata il 14 luglio 2009
7 La maggiore flessibilità e discontinuità del rapporto di lavoro, dal punto di vista previdenziale, si traduce, da un lato in fabbisogni previdenziali crescenti dei lavoratori parziali, discontinui e temporanei e, dall’altro in una riduzione dei flussi di finanziamento contributivi entro il
sistema della ripartizione.
8 Le linee di gestione istituite all’interno dei fondi pensione rispondono al modello di classificazione “Assogestioni” che consente di raggruppare le diverse politiche di investimento al fine di agevolare la comprensione delle caratteristiche dell’offerta dell’industria del risparmio gestito. I dati sui rendimenti ottenuti nelle diverse linee di gestioni istituite dai fondi pensione risultano, pertanto, comparabili. Ma a differenza di altre forme del risparmio gestito la tendenza a misurare la posizione di investimento in un orizzonte temporale di breve durata finisce per scoraggiare i fondi pensione nell’investire su classi di attività poco correlate con i mercati finanziari (private equità, fondi comuni di investimento immobiliare, ecc.), limitando l’efficienza gestionale e le potenzialità dell’investimento di più lungo periodo, in attesa che una revisione della normativa consenta di ridurre la dipendenza da rendimenti degli investimenti tradizionali e di scegliere, con tutta la prudenza e i limiti del caso, anche strumenti impermeabili al mark –to – market.
9 Sulla sostenibilità e sulle condizioni di equilibrio dei sistemi previdenziali a ripartizione e a capitalizzazione si veda la disamina proposta da Giuliano Amato e Mauro Maré in Le pensioni. Il pilastro mancante, Il Mulino (2001)
10 “Fermo restando, e pertanto confermando, l’idea (giusta) della solidarietà intergenerazionale dei figli verso i padri (fondamento dell’attuale sistema a ripartizione), già da domani si potrebbe ragionare dell’idea (anch’essa giusta) della solidarietà intergenerazionale tra padri verso i figli…” (Elio Corrente e Angelo Marinelli, Le pensioni dopo la riforma Berlusconi, Edizioni Lavoro 2005, pag. 37.