Meno Stato, più mercato? Rivoluzione fallita

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 Un volume ripercorre la storia economica della Seconda repubblica
Una rivoluzione fallita. È quella che descrivono Emilio Barucci e Federico Pierobon in un volume in cui ripercorrono una vicenda importante della recente storia economica del nostro paese: il processo di privatizzazione e liberalizzazione che ha avuto luogo dagli inizi degli anni ’90 con il passaggio alla Seconda repubblica. Non è la prima volta che Barucci e Pierobon si soffermano su questi temi. Anzi, in un certo qual modo, Stato e mercato nella Seconda Repubblica (Il Mulino) è il completamento dell’analisi illustrata a inizio 2007, cioè prima della grave crisi che ha investito le economie mondiali, con Le privatizzazioni in Italia.

Il libro ha l’obiettivo di fare il punto sul ruolo dello stato nell’economia italiana e offre, in primo luogo, un’interessante sintesi – corredata da molti dati e informazioni – sul processo di privatizzazione avvenuto in Italia. Un processo che fra il 1979 e il 2008 è stato secondo, per intensità, solo a quello verificatosi nel Regno Unito, e superiore a quelli francese, tedesco e spagnolo. Dal 2002 in poi, l’Italia è addirittura prima sia per importo delle dismissioni, che per loro incidenza sul Pil. Si parla di numeri imponenti: 205 miliardi di dollari a valori correnti (180 partendo dal 1992) e circa dodici punti percentuali di riduzione del debito pubblico.

Nonostante questo, il ruolo dello Stato e degli enti locali nelle imprese resta assai rilevante. Innanzitutto, perché una quota consistente delle privatizzazioni è stata parziale: infatti, le società completamente dismesse sono soprattutto quelle di minori dimensioni, mentre le grandi imprese – Eni, Enel, Finmeccanica fra tutte – e quelle controllate dagli enti locali sono state oggetto di privatizzazioni parziali, mentre il controllo è rimasto in mano pubblica. Inoltre, perché lo Stato rappresenta ancora oggi il primo gruppo industriale italiano, con un fatturato di 252 miliardi di euro e quasi 600.000 dipendenti, grosso modo quattro volte Fiat, il maggior gruppo privato.

Siamo, dunque, ben lontani dalle speranze dei primi anni ’90, quando si auspicava, con il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, l’avvento di una «nuova costituzione economica». Allora, la disintermediazione dello stato in molti settori economici, sotto forma di liberalizzazioni e privatizzazioni, era giudicata il naturale complemento della riforma della pubblica amministrazione e della diffusione delle Autorità indipendenti. E questa complementarietà valeva, sotto molti aspetti, anche per altri interventi di riforma, quali il passaggio al sistema elettorale maggioritario e lo stesso superamento di Tangentopoli. Il processo è arenato e Barucci e Pierobon forniscono dati e analisi sconsolanti, perché il blocco del processo di liberalizzazione e privatizzazione si inserisce in un quadro più ampio di stasi di buona parte dell’economia italiana.

Le riforme strutturali sono state sporadiche e non è un caso che la riduzione della spesa pubblica sia stata determinata pressoché integralmente dalla minore spesa per interessi, così come la diminuzione del debito è stata ottenuta in massima parte dalla riduzione degli investimenti o dai tagli alla spesa sanitaria. Sotto questo profilo, appare più corretto parlare di deterioramento della qualità della spesa piuttosto che di ridimensionamento del ruolo dello Stato.
L’economia italiana è entrata in una fase di sostanziale stagnazione, sia assoluta che relativa: la crescita dello scorso decennio è stata del tutto deludente e fra le peggiori nel mondo; lo stesso indebitamento pubblico è ritornato ai livelli di inizio anni ’90; il percorso italiano alle privatizzazioni, a giudizio degli autori, è stato incoerente ed è mancato un disegno complessivo. Non soltanto non c’è stata una scelta ponderata e formulata a priori su quali settori concentrare le privatizzazioni o quali misure di liberalizzazione predisporre, ma è anche fallito qualsiasi tentativo di pilotare l’evoluzione degli assetti proprietari delle società tramite la privatizzazione. Con la eccezione significativa delle banche, i nuclei stabili non si sono rivelati affatto tali e sono spesso durati lo spazio di qualche anno se non di qualche mese.

In tal modo, è venuto meno quello che poteva essere uno dei fattori maggiormente in grado di ridisegnare il nostro sistema economico e istituzionale, nonché di garantire all’Italia il posizionamento su un percorso di crescita stabile e relativamente elevata. L’economia e la società non sono state liberate dai famigerati “lacci e lacciuoli” e la stagnazione ha prevalso. Questa è la tesi, nella sostanza, che gli autori sottopongono ai lettori in tutta la sua evidenza.
Due osservazioni espresse nel lavoro appaiono particolarmente interessanti.

Analizzando i comportamenti degli operatori nei settori in cui sono state effettuate le privatizzazioni, le loro performance e i risultati del settore nel suo complesso (andamento dei prezzi, dell’occupazione, ecc.), ci si accorge che queste performance e questi risultati sono stati influenzati più dalle regole generali del settore – ad esempio, dalla bontà del processo di liberalizzazione – che dalla natura delle imprese operanti. Il comportamento dell’impresa pubblica, infatti, mediamente non si è discostato da quello dell’impresa privata. Enel o Eni, ad esempio, hanno operato (quasi) come se fossero imprese a capitale totalmente privato.

Questa osservazione, di per sé tutto sommato prevedibile, è la premessa logica a una seconda, ben più rilevante. Dati alla mano e alla luce dell’analisi di Barucci e Pierobon, è possibile affermare che nello scorso ventennio le imprese private – seppure nei limiti noti del nostro capitalismo – hanno fatto il loro mestiere nei settori oggetto di privatizzazione e liberalizzazione, per quanto parziali queste siano state. Certo, i privati hanno ridotto drasticamente l’orizzonte temporale delle loro decisioni, hanno puntato su una maggiore efficienza più per aumentare i margini che per ridurre i prezzi, e così via.

Ma tutto ciò era o avrebbe dovuto essere largamente previsto. Chi non ha adempiuto ai propri compiti è stato il settore pubblico, lo stato centrale e periferico, in tutti i suoi ruoli, molto spesso impresa pubblica inclusa. Il privato e il mercato non hanno potuto tutto, ma il pubblico e lo stato nelle sue funzioni di imprenditore, arbitro, programmatore e finanziatore sono stati ben al di sotto di quanto sarebbe stato necessario.

da Europa del primo dicembre 2010 

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