Qualunque opinione uno possa farsi delle prospettive economiche dell’industria nucleare civile oggi – molti sono così certi che queste prospettive siano brillanti da parlare di un “rinascimento nucleare”– deve essere messa nel contesto del mercato mondiale dell’energia. Cominciamo allora con qualche dato basilare.
Il grosso (~ 85%) dell’energia mondiale primaria sono (2009) combustibili fossili: petrolio (un terzo), carbone (un quarto) e gas naturale (un quarto).
Il rimanente (~ 15 %) proviene in parti all’incirca eguali dal nucleare, dall’idroelettrico e dalle biomasse.
Quel poco o pochissimo che rimane (attorno a un punto percentuale) è eolico, solare, geotermico etc. – fonti che possiamo raggruppare con l’idroelettrico e le biomasse sotto l’etichetta di “rinnovabili”.
Circa due terzi dell’elettricità mondiale provengono da combustibili fossili, un sesto dal nucleare e un sesto dall’idroelettrico – di nuovo, qualunque piccola percentuale, o frazione di punto percentuale, manchi all’appello proviene dall’eolico, dal solare, dal geotermico etc.
Il petrolio e il gas naturale sono le fonti di riferimento soprattutto per la flessibilità che il loro uso consente: si trasportano e si immagazzinano facilmente, grazie anche all’esistenza di una vasta infrastruttura sviluppatasi negli ultimi due secoli per fare precisamente queste due cose; i motori a combustioni interna e le turbine a gas che li bruciano – sia per la propulsione che per la generazione di elettricità – possono essere accesi e spenti a piacere.
Le turbine a gas – le ritroviamo essenzialmente identiche sugli aerei, le navi e le centrali elettriche – possono essere installate e connesse alla rete elettrica nel giro di qualche mese. Le centrali nucleari o a carbone prendono anni per essere costruite e inoltre richiedono procedure elaborate sia per farle partire che per fermarle. È per questo che vengono usate ovunque per soddisfare la domanda di base continua (base load power plants). Per contro, l’eolico e il solare sono fonti discontinue.
Poiché l’elettricità non si immagazzina facilmente (le batterie hanno un gran numero di limitazioni per molti usi) non può essere usata in quantità significativa per i trasporti – sui veicoli terrestri, le navi o gli aerei. Fanno eccezione i treni, naturalmente, che infatti sfruttano linee elettriche e non batterie.
Tutto ciò significa che una parte sostanziosa dell’umano agitarsi – lo spostamento – non può essere soddisfatta da nient’altro che da combustibili fossili.
Ora, è la disponibilità (il prezzo) delle fonti di riferimento che determina il destino economico di quelle residuali.
Se il petrolio e il gas sono scarsi (costano tanto), le altre diventano attraenti. Se il petrolio e il gas sono abbondanti (costano poco) le altre rimangono non attraenti. Anche se il petrolio e il gas sono risorse finite, non c’è un limite netto alla loro disponibilità, né una precisa definizione quantitativa di scarsità.
La grande crisi economica del 2008-2009 (che ha depresso la domanda di gas), il boom nella produzione di gas naturale da scisti bituminose negli Stati Uniti, e il forte aumento della capacità di liquefazione del gas naturale hanno causato un eccesso di offerta di gas che nessuno aveva previsto, mettiamo cinque anni fa. L’andamento del prezzo del gas sta diventando indipendente da quello del petrolio – negli Stati Uniti, se non ancora in Europa.
C’è anche il petrolio non convenzionale, come le sabbie petrolifere canadesi, il petrolio venezuelano ultrapesante – nonché il carbone liquefatto, il gas liquefatto e il petrolio da scisti bituminose. Tutta questa roba costa di più da estrarre e raffinare. Ma più sale il prezzo del greggio convenzionale, più la roba marginale diventa conveniente, il che a sua volta deprime il prezzo del petrolio, o ne modera la crescita.
Cosa ancor più importante, più sale il prezzo del petrolio, più l’economia frena. In tutto il dopoguerra, ai balzi nel prezzo del petrolio sono regolarmente seguite recessioni. Anche la grande depressione del 2008-2009, sebbene causata principalmente dalla finanza, è stata preceduta, nel luglio del 2008, da un forte aumento repentino nel prezzo del petrolio.
Il rallentamento dell’attività economica che caratterizza ogni recessione, o peggio depressione, comprime la domanda di greggio, abbassandone così il prezzo. Di nuovo, questo è precisamente ciò che è accaduto nel 2008-2009.
Un altro modo per far sì che il petrolio e il gas naturale restino abbondanti (costino poco) è usare le fonti energetiche residuali non fossili ovunque possibile e fattibile, anche quando non è una scelta realmente economica. Paradossalmente, poiché l’uso delle fonti residuali riduce la domanda di petrolio e gas naturale e dunque il loro prezzo, è tollerabile (fino a un certo punto) pagare di più per l’energia così ottenuta – normalmente questo viene fatto attraverso sussidi pubblici.
Infine, ci sono le esternalità negative derivanti dall’uso dei combustibili fossili: CO2 e riscaldamento globale. Se tale uso comportasse una carbon tax, allora i prezzi relativi cambierebbero a favore delle fonti che non emettono anidride carbonica: eolico, solare e nucleare.
I governi dei paesi ricchi sussidiano le rinnovabili o il nucleare indipendentemente da una carbon tax per incassare le esternalità positive della lotta al riscaldamento globale, della diversificazione delle fonti energetiche (che a sua volta aumenta la sicurezza nei rifornimenti) e della stabilizzazione del prezzo dei combustibili fossili già menzionata.
Nei paesi ricchi almeno, il petrolio è oggi usato soprattutto per I trasporti. Il gas naturale per il riscaldamento e la generazione di elettricità.
Più è aperto e competitivo un mercato, meno amministrato è il prezzo dell’energia, maggiore è il vantaggio derivante dalla capacità di adattarsi rapidamente a cambiamenti nella domanda (la ricordata abilità di accendere e spegnere a piacimento un generatore) – in altre parole dalla flessibilità.
L’apertura graduale di un mercato dell’elettricità su scala europea ha finito appunto per premiare la flessibilità e quindi l’uso del gas. Nella tavola qui sotto si può vedere quanto accaduto in Italia tra il 1997 e il 2010.
L’elettricità prodotta bruciando petrolio si è contratta di un fattore 10, mentre quella prodotta bruciando gas naturale è aumentata di due volte e mezza. Il gas è oggi chiaramente la fonte d’elezione. Da notare anche gli aumenti sullo stesso periodo dell’eolico e del solare (da contributi trascurabili a, rispettivamente, 8.4 e 1.6 TWh), di biomassa e rifiuti (12 volte).
[Negli ultimi due anni, tra il 2008 e il 2010, l’energia prodotta da eolico e solare è, rispettivamente, raddoppiata e decuplicata.]
Il nucleare non è aumentato molto, attorno al 10% – corrisponde nella tabella a “importazione netta”, poiché l’Italia non ha centrali nucleari sul proprio territorio ma compra la sovrapproduzione dei reattori nucleari francesi e svizzeri. Un’evoluzione simile è osservabile in tutti I paesi ricchi del mondo.
Produzione e importazione italiane di elettricità per fonte. TWh.
anno 1997 2010
Solidi 20.5 37.9
Petrolio 111.2 10.8
Gas Naturale 60.6 153.8
Idroelettrico 41.6 50.6
Eolico 0.1 8.4
Solare — 1.6
Geotermico 3.9 5.3
Biomassa e rifiuti 0.8 9.3
Importazione netta 39.0 44.0
Fonte: Autorità per l’energia elettrica e il gas
Mettiamoci ora nei panni di un privato che, per qualunque ragione, sia interessato a investire i propri soldi nell’energia nucleare – potrebbe aver sentito parlare di rinascimento nucleare, oppure essere convinto che i combustibili fossili sono destinati a esaurirsi e che il riscaldamento globale è un problema urgente. Vuole però sincerarsi che alla fine il proprio investimento renda.
La prima informazione su cui basare questa decisione d’investimento è, secondo tutto ciò che precede, una stima ragionevole circa il prezzo futuro del petrolio e del gas naturale – le fonti di riferimento dal cui prezzo dipende quello cui può essere venduta l’elettricità generata dal nucleare. Futuro va bene, ma quanto lontano nel futuro? Diciamo dal momento in cui la centrale nucleare è collegata alla rete elettrica e comincia a generare reddito, fino al momento in cui è troppo vecchia e deve smettere di funzionare.
Parliamo di un arco di tempo di diversi decenni.
Tanto per cominciare, per costruirla può volerci un decennio – se ci basiamo su quanto sta accadendo a Olkiluoto 3, uno European Pressurized Reactor (EPR) di progetto francese in costruzione in Finlandia, il cui ordine risale al dicembre del 2003 e che dovrebbe entrare in funzione nel 2013.
Dopodiché può restare operativa fino a 60 anni – molti reattori al mondo stanno ora ottenendo permessi dalle rispettive autorità di regolazione nazionali per estendere la propria vita operativa, e potrebbe esserci una tendenza a fare arrivare quella di alcuni reattori fino a sessanta anni. L’età media dei 123 reattori tolti finora dal servizio è invece di circa 22 anni.
[La tendenza all’estensione della vita operativa ha subito un colpo probabilmente fatale dagli incidenti multipli occorsi ad almeno tre dei sei reattori, nonché alle adiacenti piscine di raffreddamento delle barre di combustibile usate, della centrale di Fukushima Daiichi a seguito del terremoto in Giappone dell’11 marzo 2011.]
Prima semplice osservazione: può un privato essere realmente interessato a un investimento il cui ritorno potrebbe presentarsi dopo decenni? Qui c’è più del problema tipico dello scontare i redditi futuri – per esempio, io so con certezza che sarò morto ben prima che siano trascorsi settanta anni.
Seconda semplice osservazione: nessuno sa cosa accadrà al prezzo del petrolio e del gas naturale nei prossimi (diversi) decenni. Teniamo a mente che se si sbaglia dalla parte sbagliata – quei prezzi, in particolare quello del gas naturale, si rivelano più bassi del previsto – il ritorno sull’investimento nel nucleare potrebbe essere falcidiato da una concorrenza i cui principali punti di forza sono la velocità e la flessibilità. Ripeto: per produrre elettricità da una turbina a gas serve solo qualche mese a un costo (capitale) che è una piccola frazione di quello di un reattore nucleare.
Sappiamo per certa una cosa, tuttavia: la domanda di energia e dunque di combustibili fossili è destinata a crescere nei prossimi decenni. L’International Energy Agency (IEA) – una branca dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) – nel suo ultimo (2010) World Energy Outlookipotizza tre scenari per il periodo 2008-2035.
La domanda di energia cresce in tutti e tre: dell’1.4% annuo secondo le “politiche attuali”, dell’1.2% annuo secondo le “nuove politiche” annunciate dal G20 nel 2009, e dello 0.7% annuo secondo lo “scenario 450”, ovvero politiche coerenti con l’obiettivo di limitare “la concentrazione di gas a effetto serra nell’atmosfera attorno alle 450 parti per milione di anidride carbonica equivalente”.
Ma per quanto riguarda il prezzo di petrolio e gas, l’IEA non fa previsioni – salvo forse per sostenere l’eliminazione dei sussidi al prezzo dei combustibili fossili come un ottimo modo non solo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra e l’inquinamento dell’aria, ma anche di allentare la pressione sui prezzi mondiali.
D’altro canto, c’è una lunga (ormai) tradizione di spettacolari fallimenti nelle predizioni riguardanti la futura scarsità/abbondanza di petrolio e il suo impatto sul prezzo. Le fosche previsioni avanzate nel 1972 nel libro del MIT-Club di Roma, I limiti dello sviluppo, sulla durata delle riserve di petrolio vennero severamente criticate dall’intera professione economica precisamente perché non tenevano in conto l’effetto che l’evoluzione del prezzo ha sul tasso di crescita della domanda nel corso degli anni e quindi sulla durata delle riserve conosciute.
Nel 1980, lo scienziato dell’ambiente della Stanford University, Paul Ehrlich, e due suoi colleghi di Berkeley, John Holdren e John Harte, scommisero assieme contro Julian Simon, un economista dell’Università del Maryland, che il prezzo di cinque metalli – cromo, rame, nickel, stagno e tungsteno – sarebbe stato più alto dieci anni dopo. La parte perdente avrebbe pagato a quella vincente la differenza di prezzo rispetto a un paniere di partenza pari a 1000 dollari, cioè 200 dollari a metallo. Simon incassò alla fine 576.07 dollari.
Ho menzionato questa scommessa perché fece da precedente a un’altra, stavolta proprio sul futuro prezzo del petrolio, tra la vedova di Simon, Rita, e John Tierney, un giornalista del New York Times da una parte; e Matthew Simmons, un consigliere sull’energia del presidente George W. Bush e membro del Council on Foreign Relations dall’altra – la storia di ambedue le scommesse è raccontata in Economic Optimism? Yes, I’ll Take That Bet.
Simmons scommise 5000 dollari nel 2005 che il prezzo medio del petrolio nel corso del 2010 sarebbe stato per lo meno di 200 dollari a barile in dollari del 2005. Purtroppo morì nell’agosto del 2010, ma i suoi colleghi curatori testamentari controllarono le cifre e a metà dicembre ammisero la sconfitta – e il pagamento di 5000 dollari a Rita Simon e John Tierney. Il prezzo del petrolio non è mai andato oltre i 92 dollari per tutto il 2010 in dollari del 2010.
Naturalmente, abbagli clamorosi avvengono anche nella direzione opposta. Nel marzo del 1999, se si dava retta a un titolo sulla copertina dell’Economist, il mondo stava “Affogando nel petrolio”. Nell’aprile del 2009, un altro titolo, stavolta sulla copertina dell’edizione europea di Newsweek, annunciava “Petrolio a buon mercato per sempre”.
Tutto ciò per richiamare l’attenzione sul fatto che l’esperienza degli ultimi 40 anni dimostra che l’elemento chiave per investire nell’energia nucleare è essenzialmente un inconoscibile. La mia è un’opinione isolata? Ecco la prima frase del World Energy Outlook 2010: “Il mondo dell’energia ha di fronte un’incertezza senza precedenti”. Incertezza, sì. Senza precedenti, non direi.
Che altro c’è da dire per quanto riguarda l’economia? In questo breve paper pubblicato nel novembre del 2009, Citigroup – una grossa banca d’affari il cui ruolo principale è appunto quello di consigliare chi investe – ha analizzato le opportunità di investimento conseguenti all’approvazione nel Regno Unito di una nuova procedura, tipo corsia preferenziale, per la licenza di costruzione di nuove centrali nucleari.
Venivano sottolineati cinque tipi di rischio da pesare in una decisione di investimento.
Primo, la pianificazione – un problema forse risolto dalle nuove procedure britanniche, ma che in molti paesi può richiedere cinque anni o più. Comunque, anche il rigetto di una richiesta di costruzione – che impedirebbe il recupero delle risorse investite nella fase di pianificazione – non minaccerebbe l’integrità finanziaria di una grande impresa del settore elettrico.
Secondo, la costruzione. Citigroup faceva notare come il costo finale previsto di Olkiluoto 3 in Finlandia fosse quasi raddoppiato dall’inizio dei lavori e come il reattore AP-1000 in corso di costruzione a SanMen in Cina fosse aumentato di 3.5 volte rispetto alla stima di partenza. Insieme ad allungamenti dei tempi di costruzione come quelli fatti registrare sempre in Finlandia, gli aumenti di costo “potrebbero seriamente danneggiare le finanze anche delle più grosse imprese del settore elettrico”.
I costi capitali (diversamente da quelli d’esercizio) associati alla fase di costruzione sono più alti e più concentrati (scala) per il nucleare rispetto a qualunque altro tipo di impianto per la generazione di elettricità, perciò “gli alti costi capitali relativi a nuove costruzione nucleari possono portare a costi del debito più elevati di quelli relativi ad altri progetti convenzionali per la generazione di elettricità” – notava il rapporto di Citi.
Terzo, il prezzo dell’elettricità. Questo è il dilemma del prezzo del petrolio (e del gas) cui ho fatto riferimento prima. Secondo i calcoli di Citi un nuovo impianto nucleare avrà bisogno di un prezzo dell’elettricità di € 65/MWh anno dopo anno per pareggiare i costi – ma la Gran Bretagna “ha visto prezzi a quel livello con una certa continuità per non più di 20 degli ultimi 115 mesi”. E, significativamente, aggiunge: ”non conosciamo nessuna centrale nucleare esistente in cui il proprietario si è assunto il rischio del prezzo dell’elettricità”.
Quarto, l’operatività. “A causa degli alti costi fissi di partenza, gli impianti nucleari sono anche molto vulnerabili a cadute della produzione dovute a inaffidabilità operative. Un’interruzione del funzionamento di sei mesi può costare € 130 milioni di costi diretti, in particolare se la produzione è stata venduta in anticipo”.
Quinto, lo smantellamento e le scorie: la soluzione trovata in Gran Bretagna e negli USA è quella di una tassa su ogni MWh prodotto per coprire i costi associati e ciò in effetti limita il rischio in cui si incorre.
Il rapporto di Citi, perciò, arrivava alla conclusione che “è estremamente improbabile che investitori privati siano disposti ad assumersi i rischi di costruzione, di prezzo dell’elettricità e di operatività di nuove centrali nucleari. I ritorni dovrebbero essere garantiti dallo Stato e i rischi condivisi col contribuente/consumatore. Per rendere fattibile nuovo nucleare civile occorrono prezzi minimi assicurati, sostegno finanziario e accordi per l’acquisto anticipato della produzione – tutte cose fornite dallo Stato”.
La conclusione che si raggiunge è che da un punto di vista strettamente di economia di mercato, l’energia nucleare oggi ha ben poco senso.
Non c’è bisogno di essere un comunista irriducibile, tuttavia, per riconoscere che qualche volta i mercati falliscono e devono essere integrati dall’intervento pubblico. Un nucleare civile sussidiato dai governi può avere qualche senso economico se consideriamo le esternalità positive del contenimento del riscaldamento globale, dell’aumento della sicurezza di approvvigionamento e della riduzione della domanda (e del prezzo) dei combustibili fossili che il ricorso a questa fonte comporta. Se la limitazione della concentrazione di gas a effetto serra è un bene pubblico, allora il mercato dell’energia non ne produce abbastanza, centrato com’è sui combustibili fossili, e deve essere integrato dall’azione dei governi.
La strada del sostegno pubblico, però, è tutto meno che lastricata d’oro. Il debito pubblico sta esplodendo dappertutto nel mondo ricco e sta diventando chiaro a tutti – eccetto a Paul Krugman – che la spesa pubblica in deficit non può essere sostenuta all’infinito. Se il credito si interrompe anche i governi falliscono. E sarà sempre più così, visto che la lista delle future passività pubbliche è destinata ad allungarsi – si pensi solo alle pensioni e alla sanità nelle nostre società che invecchiano.
Per tutte queste ragioni, non sorprende che le cifre che i governi ancora possono offrire in termini di sussidi alla produzione d’energia tendono ad andare sempre di più alle fonti rinnovabili, in particolare l’eolico e il solare, che al settore nucleare. Le rinnovabili hanno diversi vantaggi sul nucleare: incontrano assai meno resistenza nell’opinione pubblica, soprattutto nel mondo ricco; hanno tempi di costruzione molto più corti; e sebbene siano anch’esse ad alta intensità di capitale, non partono da una soglia minima di 1000 MW come le centrali nucleari, la scala dei progetti essendo molto meno importante.
Si può tranquillamente aggiungere che né l’eolico, né il solare, comportano problemi di proliferazione delle armi nucleari, o generano rifiuti altamente radioattivi per tempi in certi casi incommensurabilmente lunghi – rifiuti che nessuno sa ancora dove mettere una volta per tutte – né è probabile causino mai incidenti di una gravità comparabile a quelli accaduti nelle centrali di Three Mile Island (USA, 1979), Chernobyl (Ucraina, 1986) e Fukushima-Daiichi (Giappone, 2011).
Tutto ciò è chiaramente riflesso nelle tendenze attuali e rende molto problematica l’intera idea di un rinascimento nucleare.
Negli ultimi due anni, ad esempio, il contributo della generazione nucleare alla produzione mondiale di elettricità è sceso dal 15% a meno del 14%. Il 2008 è stato il primo anno dal 1955 senza nemmeno un nuovo reattore collegato alla rete. Secondo questo studio dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) c’erano 60 centrali nucleari in costruzione a metà 2010. Nel 1979 c’erano 233 reattori in corso di costruzione, nel 1987 ce n’erano 120.
Dei 60, comunque, 11 sono in costruzione da prima del 1990 e di questi 11 solo 3 potrebbero entrare in funzione nei prossimi tre anni. Tutte le 22 nuove costruzioni cominciate nel 2008 e nel 2009 sono in solo tre paesi: Cina, Corea del Sud e Russia, nessuno dei quali è noto per preoccuparsi di contenere la presenza pubblica nell’economia. L’”Europa occidentale” – solo le agenzie dell’ONU come l’AIEA ancora usano i termini Europa “occidentale” e “orientale” – ha 2 reattori in costruzione, il Nord America 1.
C’è una mancanza seria e in aumento di risorse umane. Secondo l’AIEA, “circa tre quarti dei reattori oggi operativi hanno più di 20 anni e un quarto ha più di 30 anni. La generazione che li ha costruiti e mantenuti in operazione è già in pensione o ci andrà presto”. Il problema è così pressante che l’AIEA ha sponsorizzato nel marzo del 2010 ad Abu Dhabi una Conferenza Internazionale sullo Sviluppo delle Risorse Umane per l’Introduzione e l’Espansione dei Programmi Nucleari Civili.
Esistono preoccupanti colli di bottiglia nella filiera produttiva. C’è un solo impianto al mondo, Japan Steel Works, in grado di realizzare le grosse fusioni necessarie per certe strutture di contenimento dei reattori.
Così riassume la situazione The World Nuclear Industry Status Report 2009 (di Mycle Schneider, Steve Thomas, Antony Froggatt, Doug Koplow) commissionato dal Ministero Federale Tedesco per l’Ambiente, la Tutela della Natura e la Sicurezza dei Reattori.
“Anche se la Finlandia e la Francia costruiscono ciascuna un reattore o due, la Cina 20, e il Giappone, la Corea o l’Europa orientale aggiungono qualche altra unità, la tendenza complessiva mondiale nei prossimi due decenni è comunque quasi sicuramente al ribasso. Con tempi di costruzione di 10 anni o più, sarà praticamente impossibile mantenere costante il numero di reattori operativi nei prossimi vent’anni – per non parlare di aumentarlo. Potrebbe cambiare questo risultato un’estensione della vita operativa dei reattori sostanzialmente al di là dei 40 anni in media; al momento non ci sono basi per una simile ipotesi”.
[Se questi basi non c’erano nel 2009, ci sono ancor meno dopo i già citati incidenti ai reattori della centrale di Fukushima Daiichi in Giappone del marzo 2011.]
L’International Energy Agency, nel suo World Energy Outlook 2010, nel contesto dello scenario di “nuove politiche” per il 2035, prevede invece che “la quota del nucleare nella generazione di elettricità aumenti solo marginalmente, con più di 360 GW di nuovi impianti nel periodo ed estensione della vita operativa di diversi impianti”. Ma anche questo aumento “solo marginale” significa tra i 250 e i 300 nuovi reattori, 10-12 l’anno, o circa uno nuovo al mese connesso alla rete elettrica. Un’ipotesi decisamente ottimistica alla luce degli ordini e delle costruzioni correnti.
Poiché la ragione principale per cui questo paper è stato scritto era misurare l’impatto sul disarmo nucleare delle prospettive future dell’industria nucleare, credo che alla fine ci sia una sola semplice conclusione da trarre e che non sia molto rassicurante – cioè che i nuovi reattori nucleari saranno concentrati proprio dove i rischi di proliferazione sono maggiori. Più della metà di quelli in costruzione sono in estremo oriente, più un dieci percento in medio oriente e in Asia meridionale – e tralascio ogni giudizio sul quarto circa in costruzione in Europa “orientale”, cioè soprattutto in Russia.
Nota: questo paper è stato scritto in inglese per la 24esima International School On Disarmament and Research on Conflict (ISODARCO) invernale, tenutasi ad Andalo (Trento), dal 9 al 16 Gennaio 2011 e in quell’occasione presentato e discusso. Postato su Crusoe il 14 gennaio, è stato tradotto in italiano dopo il terremoto in Giappone dell’11 marzo 2011 e i relativi incidenti agli impianti nucleari di Fukushima-Daiichi. I riferimenti a questi incidenti sono qui stati messi tra parentesi quadre. L’altra differenza con l’originale inglese è che i dati su “produzione e importazione italiane di elettricità” nell’unica tabella del paper sono stati aggiornati al 2010, anno reso nel frattempo disponibile dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
Le prospettive economiche di un rinascimento nucleare
