La crisi finanziaria e l’Unione Europea: quali insegnamenti per la governance europea?

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1 L’intervento forzato e coordinato dell’Unione
La crisi finanziaria che stiamo attraversando ha importanti lezioni per l’assetto attuale dell’Unione Europea e per le sue prospettive di governance.
Nel fine settimana dell’11-12 ottobre, i paesi dell’Euro hanno finalmente deciso di cambiare livello e impostazione del gioco a cui stavano partecipando con i mercati. Resisi conto che le armi e le munizioni utilizzate apparivano ormai spuntate e poco credibili, e che un meltdown del sistema era alle porte, i governi hanno adottato finalmente una posizione comune sull’estensione delle garanzie statali alle banche in materia di capitale, sui prestiti interbancari e sulla garanzia dei depositi. Si è trattato, in una certa misura, di un aggiustamento ad analoghe misure britanniche che, prese appunto in isolamento, sono state una manifestazione di free riding – così come quelle irlandesi ancora precedenti che tanto avevano irritato Londra.
La risposta ha comunque un discreto grado di asimmetria in quanto, pur frutto di una posizione comune concordata in sede europea, ha modalità operative e di applicazione esplicitamente ed esclusivamente nazionali. Ciò era per certi versi inevitabile, per come essa è stata costruita e per il poco tempo a disposizione, soprattutto di fronte al montare della tempesta. Ma essa riflette anche la debolezza istituzionale europea che ci portiamo appresso da troppo tempo. Viaggi improvvisati a Bruxelles o a Parigi possono coprire un’emergenza, ma servirebbe ben altro. Ci sono anche alcuni vantaggi: ogni paese può essere libero di decidere quanto investire nelle operazioni di salvataggio, sulla base delle situazioni specifiche bancarie nazionali, della loro relativa gravità e delle diverse preferenze nazionali; non c’è un vincolo europeo quantitativo, invece c’è una certa flessibilità di applicazione delle misure che la eterogeneità della crisi forse richiedeva. Si è mostrata ai mercati, nel bene e nel male, finalmente una posizione comune che è apparsa entre-temps efficace e credibile. Ma ci sono svantaggi: sotto diversi aspetti c’è stata una coordination failure, che porta con sé i germi del beggar-thy-neighbour.
Quali lezioni trarne per il futuro dell’Unione Europea e per la governance europea?
2 Il coordinamento paga e produce azioni efficaci.
Lo si è visto molto bene tra l’Ecofin e l’Eurogruppo della prima settimana di ottobre e la riunione del G7 a Washington nel weekend successivo e soprattutto alla riunione dei Capi di Stato dell’Eurogruppo. È stato subito evidente che per alcune dimensioni e problemi internazionali – i cosiddetti beni pubblici globali o mondiali – la risposta nazionale è insufficiente.
I mercati globalizzati sono troppo forti e complessi – soprattutto quelli finanziari e bancari – per una gestione domestica e nazionale, che è ormai improponibile e inefficace. Una risposta comune e coordinata è il minimo indispensabile. Ma c’è da chiedersi se ancora siano sufficienti meri meccanismi di coordinamento e di cooperazioni anche rafforzate. Oppure se non occorra passare a un livello di governo sopranazionale. Su questo la teoria economica – da quella dei club, ai problemi di pool, dal fiscal federalism fino alle questioni ambientali – è molto netta e chiara.
Ma esistono istituzioni sopranazionali adeguate a questa sfida? No. Persino in questa parte del mondo, all’esistenza della BCE non corrisponde una vera sede istituzionale di politica economica a livello europeo. Si discute da tanti anni di dotare l’Unione di un Ministro del Tesoro, almeno di un Mister Economia che rappresenti il contrappeso politico ed economico alla forza della BCE. La soluzione attuale esistente per l’Eurogruppo non appare più soddisfacente, soprattutto non è più in grado di affrontare scenari complessi come quelli di queste ultime settimane o della posizione e del ruolo dell’Unione nella globalizzazione. E pur controvoglia, va riconosciuto come un vero colpo di fortuna che la ruota della distribuzione della presidenza semestrale dell’Unione si sia fermata sulla casella della Francia e le abbia attribuito un tale ruolo in questo semestre orribile[1].
3 La sede, l’istituzionalizzazione e il finanziamento delle azioni comuni.
Il tema dell’azione collettiva e della sua ottima offerta è un classico di diverse discipline economiche[2]. Esso caratterizza temi transnazionali come la gestione dei conflitti e la sicurezza internazionale, l’immigrazione, la lotta alle malattie contagiose, l’ambiente e così via.
La questione di fondo è proprio quella della ripartizione dei costi dell’azione collettiva, del burden sharing – ovvero della ripartizione simmetrica o equa, se condivisa ed effettuata in base a qualche parametro, dei costi finanziari dell’offerta del bene pubblico più o meno globale.
È evidente che questa ripartizione si pone in termini diversi a seconda che essa sia effettuata da un’istituzione federale o sopranazionale, oppure come semplice accordo libero di alcune parti o Stati su un progetto specifico. Il decadimento che negli ultimi anni ha subito il bilancio dell’Unione Europea, con la riduzione marginale del ruolo delle risorse proprie – in particolare dell’Iva che è invece opportuno ricordare, è in realtà l’unica base imponibile in un certo senso europea e comune – e l’affermarsi prepotente dei contributi nazionali, è l’esempio più chiaro e lampante del contrasto di queste due logiche.
Un bilancio comunitario vero ed efficace ha senso solo se vi sono funzioni comuni da svolgere e se per esse si individuano risorse comuni condivise e pagate da tutti in modo trasparente nell’intera area – almeno per i loro cittadini. Ciò tra l’altro rafforza la trasparenza delle istituzioni comunitarie e ne accresce il consenso presso le popolazioni. Se prevale invece l’idea intergovernativa, è poi logico che la questione finanziaria si risolve in una breve riunione nella quale si deve solo decidere cosa mettere – data, causale e importo – per completare gli “assegni” nazionali al bilancio dell’Unione. L’attuale meccanismo di finanziamento non assomiglia più a un bilancio, se ne è di molto discostato; esso dovrebbe invece avere, oltre alle ovvie caratteristiche di trasparenza e accountability, anche quelle della certezza e della stabilità delle risorse. Se non si è più d’accordo neanche su questo, lo si dica apertamente e la si smetta con la liturgia delle risorse finanziare: in questo caso non è più necessario il bilancio, ma sono sufficienti buoni contabili e qualche controllore per verificare i rimborsi annuali verso i soliti paesi.
Oltre alla questione dei costi c’è quella dell’efficacia dell’azione, molto più elevata quando è davvero espressione di un’entità sopranazionale, anziché la somma di diverse entità subordinate. E l’escalation della crisi e l’aumento del grado di cooperazione all’aggravarsi degli episodi ne è l’ennesima riprova: essa ha dato risultati concreti – almeno si spera… fino ad oggi – solo quando la natura collettiva e condivisa – ma anche la dimensione e l’estensione delle misure – è apparsa evidente e non più in discussione.
4 La lezione per la governance europea.
La severità della crisi fa emergere che in futuro avremo bisogno di altre e più rafforzate azioni collettive. La questione è quella di valutare i pregi e le potenzialità di una somma di pur pregevoli iniziative coordinate nazionali oppure se non sia giunta l’ora di pensare laddove necessario – nelle maggiori aree di azione collettiva – a un’azione sopranazionale, quindi europea: a più Europa in questi settori, e forse a meno in altri con più marcate caratteristiche distributive e/o nazionali.
Insomma, la difficoltà ad assumere una posizione comune e coordinata a livello europeo riflette non solo l’assenza di una sede istituzionale appropriata ma anche l’inevitabile tendenza, in questi contesti asimmetrici e spontanei, a scaricare sui vicini il costo dell’aggiustamento, oppure al rifiuto di sopportare qualsiasi costo non strettamente nazionale. Si pensi alla posizione irlandese prima e a quella britannica poi, che hanno anticipato per la gravità dei problemi nazionali, ma anche per un’innata tendenza al free riding, il lancio di alcune misure di salvataggio e di nazionalizzazione bancarie. Oppure al secco no tedesco alla creazione di un fondo europeo comune à la Paulson ma al tempo stesso di realizzarlo subito su scala nazionale.
La pratica del cost-exporting emerge sempre in contesti del genere. Ma quando sono in gioco beni pubblici, le soluzioni nazionali spontanee, anche se coordinate, sono lente, tardive e quasi sempre insufficienti.
Ma c’è molto di più. Come è stato fatto osservare[3], la risposta europea attuale porta con sé molti altri costi: ovvero la sospensione di alcuni principi del mercato unico, incluso il divieto agli aiuti di stato; l’ammorbidimento parziale delle regole fiscali e di bilancio attualmente in vigore; il parziale abbandono o la retromarcia del progetto di integrazione finanziaria; l’emarginazione del ruolo della Commissione europea a favore del processo decisionale intergovernativo.
La crisi potrebbe agire come detonatore e distruggere parte del cammino che faticosamente abbiamo conseguito in tanti anni, rimettere in discussione l’acquis communautaire. Il mercato non ha dato buona prova di se, v’è stata sicuramente una regulation failure, ma esso non è morto e non possiamo tornare indietro. All’Europa, ne restiamo convinti, serve non meno ma più mercato, ma anche più istituzioni comunitarie e governo.
5 Come riformare la governance dell’UE?
Naturalmente le crisi, specie quelle grosse come questa, mettendo a nudo i limiti dei meccanismi decisionali esistenti, hanno il pregio di innescare ripensamenti altrimenti difficili.
Così, sia la Svezia, sia la Danimarca, stanno riconsiderando la possibilità di aderire all’euro. Sembra non casuale a chi scrive, infatti, che l’unico grande successo europeo in questa enorme crisi sia stato avere la BCE. E non solo per la sua, col senno di poi, sacrosanta ossessione con la stabilità dei prezzi quando (2001) la Fed badava solo alla crescita.
Qualcuno ha pensato quanto (ancor) meno efficaci sarebbero state, nonché difficilissime da coordinare, le mosse in contemporanea – dalle ripetute iniezioni di liquidità alla riduzione dei tassi d’interesse – delle maggiori banche centrali mondiali, se al posto della BCE ci fossero stati 15 distinti istituti d’emissione? Oppure a quanto più alto sarebbe stato il rischio sistemico se, non esistendo l’Euro, la crisi avesse preso una piega valutaria. Quante altre Islande avremmo avuto? O a che fine avrebbe fatto la nostra lira e con essa la nostra economia?
Dopo aver subito traumaticamente le conseguenze di decisioni prese altrove (Irlanda e Islanda), non è nemmeno escluso che qualcuno in Gran Bretagna cominci a riconsiderare il rapporto tra armonizzazione e competizione in materia di politica fiscale.
Ci rendiamo conto di eccedere in ottimismo ma, secondo la stessa logica, qualcuno – ad esempio in Francia – potrebbe interrogarsi sulla bontà di un bilancio dell’Unione che serve quasi solo a sussidiare l’inefficienza – quanti impieghi migliori e più urgenti, compresa, abbiamo scoperto, la ricapitalizzazione delle banche europee in crisi, esistono di quei 130 miliardi di euro l’anno?
Ancora, può darsi che aver toccato con mano, in queste ultime drammatiche settimane, i limiti dell’azione collettiva europea porti tutti a riconsiderare le modalità di offerta di altri beni pubblici. Un esempio è la difesa e la sicurezza, tradizionale campo d’elezione dei fenomeni di free riding.
Nick Witney, un funzionario britannico che è stato il primo direttore dell’Agenzia di Difesa Europea – un organismo del Consiglio dell’Unione Europea incaricato di coordinare le politiche di approvvigionamento militare di 26 Stati membri su 27 – ha scritto: “Quasi due decenni dopo la fine della Guerra Fredda, gran parte degli eserciti europei sono calibrati su un’eventuale guerra totale sull’ex fronte centrale della NATO, in Germania – invece di pensare a come mantenere la pace in Ciad o sostenere la sicurezza e lo sviluppo in Afghanistan…Il 70% delle forze di terra europee sono semplicemente incapaci di operare fuori dei confini nazionali…Questa mancata modernizzazione significa che molti dei 200 miliardi che l’Europa spende per la difesa ogni anno sono semplicemente sprecati”[4].
Ma sessant’anni di mero coordinamento delle politiche, prima in ambito NATO e ora anche in ambito UE, non sono mai riusciti ad evitare sprechi, duplicazioni e soprattutto free riding. Il coordinamento non basta e non porta da nessuna parte, specialmente ora che non c’è più il collante della miniaccia sovietica, né la leadership degli Stati Uniti. Come con la BCE e la politica monetaria, anche in questo ambito la sola risposta efficacia è l’unione, l’istanza sopranazionale – qui l’esercito europeo.
Infine, la rappresentanza esterna dell’Unione, la politica estera europea. Abbiamo già esaminato sopra quanto confermato dalla crisi finanziaria in proposito, ovvero che il coordinamento delle politiche è lento e tendenzialmente inefficace a paragone dell’istanza sopranazionale (BCE).
Ma a noi sembra anche molto miope che non siano gli europei per primi a mettere in discussione la loro propria sovra-rappresentazione negli organismi multilaterali. Conviene avere quattro posti nel G-8 ma parlare in ordine sparso e altrove a Cina, India e Brasile? Conviene avere più diritti di voto di tutti, e di gran lunga, al Fondo Monetario ma poi non essere mai in grado di coalizzarsi, o non è meglio dare più spazio ad altri e farsi rappresentare dall’Unione? E così via fino al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
6 Conclusioni
Qualunque esito è possibile nella grave congiuntura attuale: un aumento del coordinamento, della cooperazione e, nel caso dell’Europa, dell’integrazione; oppure un aumento della competizione, del conflitto e, nel caso dell’Europa, della disgregazione.
Se il secondo di questi due scenari sembra troppo fosco, basta riflettere sugli appelli – al più alto livello in Francia e in Italia – ad estendere l’aiuto pubblico al di là del settore finanziario.
Il divieto agli aiuti di Stato è l’architrave della politica di concorrenza. La quale, assieme alle quattro libertà, è l’essenza del mercato unico – che è a sua volta l’essenza dell’Europa che abbiamo – può sembrare poco ma di questi tempi a noi sembra già qualcosa, da tenersi comunque stretta.
Generalizzare gli aiuti di Stato alle imprese significa stracciare il Trattato di Roma e disfare l’Europa. Politicamente ed economicamente è l’equivalente dello Smoot-Hawley Act. Il solo fatto che se ne parli è dunque preoccupante, anche se rientra pienamente nel clima anti-mercato interno istauratosi tre anni fa con l’opposizione alla Direttiva servizi.
Ma, appunto, ogni esito è possibile. E se è vero che “dietro ogni crisi c’è un’opportunità”, sta anzitutto a noi europei cogliere questa opportunità per procedere sulla strada dell’integrazione.

nota per il gruppo di studio di Astrid-Fondazione Italianieuropei-Fondazione Ugo La Malfa su “Il governo della globalizzazione”
 

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[1] Quello della cessazione della turnazione della presidenza e della fissazione nelle aree più rilevanti di un presidente stabile per alcuni anni è il punto chiave del futuro dell’Unione, come affrontato nel Trattato di Lisbona (si veda A. Fernandez, Les Brefs de Notre Europe, Septembre 2008).
[2] Per restare nell’economia pubblica, il riferimento canonico è al lavoro di Mancur Olson del 1965 oppure più specificamente a quello di Samuelson per i beni pubblici e a quello di Oates per le esternalità ambientali.
[3] Luigi Spaventa (Repubblica, 14 ottobre 2008).
[4] “Re-energising Europe’s Security and Defence Policy”, European Council on Foreign Relations, 2008.

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