La Corte dei Conti e i falsi miti nella lotta all’evasione

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La Corte dei Conti e i falsi miti nella lotta all’evasione

di Oida

 

1. L’elenco clienti, un altro “feticcio” sul palcoscenico dell’antievasione

Ci risiamo, di nuovo l’anti-evasione fiscale affidata a misure-slogan. Dopo la tracciabilità dei pagamenti, evocata ostinatamente dai media nel 2011 come “la” soluzione del problema (ma non doveva essere pressoché risolto? dove sono i risultati, anche solo parziali della tracciabilità a mille euro?), ora è la volta dell’”elenco clienti” (più precisamente, elenco “clienti e fornitori”).

L’equivoco è sempre lo stesso. E nasce dal fatto che, come per la tracciabilità, anche per l’obbligo di presentare l’elenco clienti comincia a delinearsi, di nuovo a favore di un  singolo adempimento, un clima da guerra di religione. Un modo per buttarla in morale e, dunque, farne semplicisticamente una questione di buoni e cattivi, evitando così di sottoporsi all’enorme fatica che sta dietro ogni seria analisi razionale. E che invece farebbe emergere, oggettivamente, responsabilità comuni nella governance della macchina fiscale, durante gli ultimi 15 anni.

Sul punto in questione (gli elenchi) tutto è dovuto a un comportamento colpevolmente ballerino del governo Berlusconi. Il quale, pur fra mille contraddizioni e infiniti rinvii, di recente ha sostanzialmente reintrodotto l’elenco clienti (sotto il nome di spesometro), dopo averne però soppresso l’obbligo a giugno 2008.

Quale prova migliore, si penserà ancora una volta in molti, per attestarne la sua massima utilità in chiave anti-evasione? Fin qua, tutto giusto, giustissimo. Da qui, però, a farne una misura-feticcio, addirittura bastevole e anzi prodigiosa “da sé” , ce ne vuole. Eppure, fino a tanto si è spinta la Corte dei conti, in un recente documento d’indagine di cui si dirà oltre.

 

2. I “buoni” e i “cattivi”

E, così, il retro-pensiero corre veloce fino a fare del singolo adempimento la bandiera di un ipotetico solco esistente nella gestione del Fisco fra le due fazioni politiche.

Per arrivare a dire che è possibile tracciare una linea netta: tutto quanto fatto dal 2008 in avanti (Governo Berlusconi) è stato orientato nella direzione pro-evasori, vista l’evidente finalità partigiana che traspare dietro la sequenza “soppressione-pentimento” riguardo all’elenco. Mentre automaticamente, per meccanismo riflesso – ed è qui che si consuma inavvertitamente l’inganno più grande – per il biennio precedente (Governo Prodi) le cose nella gestione del Fisco sarebbero andate in senso opposto. Esattamente all’incontrario.

Ma, siamo sicuri che è così? Purtroppo, sottotraccia, la verità è profondamente più sfumata, e, al tempo stesso, estremamente più ingarbugliata e complessa di quanto possa sembrare (oltre che assai più grave).

Sta di fatto, che, intervistato da Repubblica, anche Yoram Gutgeld ha mostrato a questo riguardo di mangiare la foglia. Gutgeld è l’uomo di recente definito dalla stampa come il “Casaleggio di Renzi”. Il 10 novembre scorso egli ha dichiarato che

«L’unico a ottenere risultati concreti sul fronte della lotta all’evasione fu Vincenzo Visco che, con l’elenco fornitori clienti (non a caso poi abolito da Tremonti) portò nelle casse dello Stato 23 miliardi di euro e Berlusconi li utilizzo per abolire l’Ici».

 

3. L’assist pregiudiziale della Corte dei conti a favore delle politiche di centro-sinistra

Il riferimento, nemmeno troppo velato (c’è anche coincidenza della cifra, come si vedrà), è al documento conclusivo pubblicato pochi giorni prima dalla Corte dei conti (deliberazione 8/2013/G del 31 ottobre 2013): secondo cui, a seguito e per effetto del varo dell’elenco clienti, vi sarebbe stato un rilevante incremento di entrate negli anni 2006 e 2007. L’indagine della Corte dei conti concerne espressamente gli esiti dell’attività di controllo fiscale basata sugli incroci delle informazioni contenute negli elenchi clienti, posto che tale strumento di monitoraggio e controllo fu introdotto il 4 luglio 2006 dal governo Prodi, per essere poi soppresso il 25 giungo 2008, come si diceva, dal governo Berlusconi. Secondo la Corte dei conti

«i dati appaiono tali da non lasciare adito a dubbi sui rilevanti effetti positivi che gli elenchi “clienti e fornitori” hanno avuto ai fini dell’emersione della base imponibile… e inducono a ritenere che nel periodo di vigenza dell’obbligo … si è avuto un netto incremento della tax compliance».

Senonché, tali conclusioni sembrano più il frutto di una posizione pregiudiziale, che non l’esito argomentato di una riflessione ragionevole.

Lo si desume anzitutto da una prima vistosa forzatura che non si fa velo di piegare la realtà a tale preconcetta finalità. La Corte dei conti, infatti, ascrive a “merito” dello strumento “elenco clienti” gli esiti (ultra-positivi) dell’intero 2006, circa il trend di crescita delle entrate Iva, nonostante l’obbligo in parola fu introdotto il 4 luglio 2006 (decreto legge n. 223) e fu rivolto a meno di un terzo delle partite Iva.

Mentre, per converso, riguardo al trend negativo registrato nel 2008, la Corte omette di ascrivere tali effetti a (de)merito dell’elenco clienti, nonostante che, fino al 25 giugno 2008 – data di entrata in vigore della norma di soppressione – 5.260.217 partite Iva (ovvero la totalità di esse, obbligate a trasmettere l’elenco sin dal 2007 in avanti, giusta pagina 18, tavola 1, terza riga della tabella acclusa alla citata delibera Corte dei conti 8/2013/G) si erano già vincolati al quantum da dichiarare, anche mediante gli obblighi di liquidazione e versamento mensili, avendo già annotato i ricavi nei propri libri contabili con la prospettiva certa (fino a quel momento) di essere assoggettati ai futuri incroci tramite elenco clienti. Nel 2008, per l’esattezza, la norma è stata in vigore 176 giorni, 5 in meno rispetto ai  181 giorni di vigenza del medesimo obbligo nel corso del 2006. Un anno, però, quest’ultimo, nel quale l’obbligo in parola fu limitato alla terza parte del numero di partite Iva che invece vi furono assoggettate nel corso del 2008.

Il punto è che la mera pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di un obbligo di allegazione degli elenchi, di per sé, mai e poi mai può essere “la” ragione di questo balzo in avanti delle entrate.

Ma torniamo alla delibera 8/2013/G della Corte dei conti. In essa ci sono almeno tre punti discutibili. Cominciamo dai numeri riportati dalla tabella pubblicata a pagina 40 del documento (tavola 7) che mette bene in evidenza il cuore del ragionamento dei giudici contabili (vedasi il file pdf, qui allegato in calce, TAB 1).

 

4. La questione della cifra (errata) dell’Iva incrementale indicata dalla Corte dei conti rispetto all’anno prima.

I 23 miliardi incrementali incamerati nei due anni si riferiscono in realtà alla cosiddetta “Iva lorda”, mentre in effetti la parte introitata in più dallo Stato nel 2006-2007, sarebbe, secondo i dati ufficiali di cui si dirà avanti (allegato II alla nota di aggiornamento del Def 2013), circa la metà, nell’ordine di 12,5 miliardi. In particolare, a fronte di 106,179 miliardi di “Iva versata” nel 2005, si è registrato un aumento di +9,298 miliardi nel 2006 (Iva versata pari a 115.477 miliardi), e di +14,524 miliardi nel 2007 (Iva versata pari a 120.703), per un totale, appunto di +23,822 miliardi. Questa è esattamente la cifra data per buona da Yoram Gutgeld, che ha parlato, appunto, di 23 miliardi di maggiori entrate “grazie” al varo dell’elenco clienti.

Messa così, però, la tesi sostenuta dalla Corte dei conti è anzitutto tecnicamente sbagliata, dato che l’”Iva versata”, indicata dalla Corte, altro non è che la cosiddetta “Iva lorda”. La quale com’è noto, non viene incamerata dallo Stato nella sua interezza, in quanto a tali fini essa va a sua volta nettizzata, dopo aver scomputato, in diminuzione, le tre poste correttive strutturali: i rimborsi eseguiti, i crediti auto-compensati, nonché la variazione annua (se di segno negativo) di quel serbatoio di crediti latenti, rappresentato dalla voce dei “crediti riportati a nuovo nell’anno dopo” (all’interno di ciascuna dichiarazione Iva presentata).

Per cui, il vero e reale importo incrementale è stato largamente inferiore ai 23 miliardi, come già detto. La cifra esatta si può rilevare da fonte ufficiale, e precisamente a pagina 28 dell’allegato II alla nota di aggiornamento del Def 2013 (si veda in estratto, il file pdf qui allegato in calce, TAB 4). Nel quale sono riportati, in col. (1) gli stessi importi utilizzati dalla Corte dei conti (ma, come si legge nella intestazione di colonna, si tratta della “Iva lorda”). Il prospetto, seguendo peraltro una logica dettagliatamente spiegata alla pagina precedente del documento, seguita poi a indicare: a) in col. (2) l’Iva di competenza economica, vale a dire la quota di Iva, al netto dei rimborsi eseguiti e delle auto-compensazioni fruite, b) in colonna (3) lo stock annuo della voce “crediti riportati a nuovo”, c) in col. (4) la variazione algebrica (positiva o negativa) derivante da col. (3), e, infine, d) a col. (5) la cifra annua della “Iva effettiva di competenza” (detta anche “Iva netta”)

La quale ultima rappresenta la quota realmente introitata dallo Stato. Nel file pdf qui allegato in calce, TAB 3, è stato elaborato un quadro di sintesi che, oltre a incorporare i dati della tavola 7 del documento della Corte dei conti (vedasi il file pdf qui in calce, TAB 1), riproducendone fedelmente i dati, contiene altresì dati integrativi che aiutano ad “afferrare” meglio, comparativamente, la consistenza reale dei fenomeni sotto monitoraggio.

 

5. La crescita del volume d’affari dichiarato per gli anni dal 2005 al 2007.

Nella deliberazione relativa agli elenchi clienti, inoltre, la Corte dei conti rileva che la variazione sull’anno precedente, nel periodo d’imposta 2006 è stata pari a +9,84% e a un ulteriore +6,30% nel 2007. Cifre che in effetti sono largamente al di sopra delle percentuali di crescita, sia del Pil (rispettivamente, +3,91 e +4,09), sia dei consumi finali nazionali (+3,69 e +2,98). Questi ultimi dati sono tutti sacrosanti.

Solo che, se si guarda sottotraccia, spacchettando cioè il mondo delle partite Iva fra “piccoli” da una parte, e “grandi” dall’altra, allora si vede come gli stessi dati diventano la dimostrazione del contrario, ovvero della rilevanza trascurabile del (semplice varo) dell’elenco clienti. Si guardi in calce la tabella riportata nel file TAB 2. Emerge chiaro che a determinare i flussi di aumento, da un anno all’altro, sono in misura preponderante i volumi d’affari imputabili ai “grandi contribuenti”, ovvero alle grandi aziende che dichiarano ricavi annui superiori a 5,16 milioni di euro. Le quali – però – quantitativamente rappresentano l’1% del popolo delle partite Iva, pur fatturando più di due terzi del volume d’affari nazionale.

Dunque, la stessa documentazione ufficiale evocata da Corte dei conti (deliberazione 10/2013/G) attesta che l’elenco clienti sarebbe stato decisivo, anche nei rapporti reciproci fra partite Iva, dentro il perimetro costituito dall’uno per cento della platea (!?). Mettendo sotto la lente questo uno per cento, diventa però risibile immaginare che società di capitali iperstrutturate, che fatturano prevalentemente centinaia di milioni all’anno, possano essersi “spaventate” di fronte al rischio di incappare in una sanzione pari a 258 euro.

A tanto ammonta infatti la pena pecuniaria, in caso di mancata compilazione e mancata allegazione dell’elenco clienti, secondo quanto previsto dall’articolo 8-bis, comma 6 del D.P.R. n. 322 del 1998. Comma momentaneamente abrogato dal decreto legge n. 112, ma poi “resuscitato” in sede di conversione dalla legge n. 133 del 2008. Tale norma prescrive appunto una sanzione che si esaurisce in quanto stabilito dall’articolo 11 del decreto legislativo n. 471 del 1997 (ovvero, pena pecuniaria da un minimo di 500mila a un massimo di 4milioni di vecchie lire).

Ma adesso torniamo al ragionamento della Corte dei conti e guardiamo da vicino i dati riferiti alla fascia dei “piccoli” (99% della platea). Qui, all’interno del biennio 2006-2007, gli incrementi del volume d’affari non sono stati univoci: nel 2007, a esempio, l’anno clou in termini di massima penetrazione e diffusione dell’obbligo dell’elenco clienti, il tasso di crescita del volume d’affari (+3,73) risulta persino inferiore all’incremento del Pil (+4,09). Mentre per il 2006, sempre in termini di crescita rispetto all’anno prima, il divario fra Pil (+3,91) e volume d’affari (+4,53) non è poi così rilevante da “non dar adito a dubbi”.

 

6. Come l’Agenzia delle Entrate ha gestito in via istruttoria gli elenchi ricevuti per il 2006 e 2007

Come già accennato, la delibera 8/2013/G fornisce altresì minuziosi dati di dettaglio su come è stata gestita, nel backoffice della macchina di elaborazione e controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate, la massa di dati pervenuti attraverso gli elenchi clienti e fornitori, relativamente agli anni 2006 e 2007. Ne viene fuori un quadro che mette a nudo una profonda inadeguatezza del sistema.

L’obbligo di allegazione degli elenchi ha reso possibile incrociare i dati fra partite Iva distinte. Ciò per verificare che il totale di Iva acquisti fruita in detrazione (e dunque, a credito) dalla singola partita Iva collimi con la cifra totale che l’universo delle proprie controparti commerciali (fornitori) ha dichiarato (e versato) come Iva a debito (Iva vendite, per come risultante dall’elenco fornitori da ciascuna partita Iva presentato).

Ebbene, tali incroci sono stati effettuati con una logica che ha avuto la finalità di intercettare solo i casi-limite, senza dar luogo a liste analitiche contenenti, per ciascuna partita Iva, la squadratura precisa, in più o in meno, rispetto ai dati rilevati in elenco.

A pagina 20 della delibera 8/2013/G viene infatti chiarito che, a valle delle elaborazioni dei dati, sono state utilizzate tre tipi di liste, le quali si sono avvalse solamente dell’elenco fornitori. La sommatoria degli acquisti segnalati nell’universo degli elenchi fornitori, con riferimento alla partita Iva denunciata in elenco come propria controparte commerciale, è stata, a sua volta, messa a confronto con il rigo VE40 della dichiarazione Iva in parola (campo recante il volume d’affari di quest’ultima). Ognuna delle liste, tuttavia, ha intercettato solamente chi, pur essendo stato menzionato almeno una volta fra la massa di elenchi fornitori presentati, si è ritrovata nella condizione di avere alle spalle una dichiarazione Iva:

di cui è stata omessa la presentazione;

con omessa compilazione dell’intero quadro VE;

con omessa compilazione della cifra di volume d’affari sull’apposito rigo VE40.

Se si mette a confronto questo tipo di incrocio con quello di recente elaborato per intercettare e far affluire verso l’Agenzia delle Entrate il flusso delle movimentazioni bancarie, la situazione appare paradossale. In pratica, è successo che nei confronti di 5milioni di partite Iva, e con riferimento al trattamento di un dato che già di per sé esprime “la” base imponibile (il volume d’affari), è stata realizzata una forma di incrocio molto più approssimativa rispetto al tasso di analiticità che, sarà utilizzato in seguito, nei confronti di 50 milioni di ignari contribuenti, per i dati bancari.

 

7. Gli accertamenti e i recuperi: risibili e men che simboliche le cifre recuperate

La Corte dei conti  ha altresì fornito dati analitici circa gli esiti dei controlli effettuati – dal 1 gennaio 2009 al 31 dicembre 2012 – a seguito di incrocio tramite elenchi (si veda la tavola 3 a pagina 25 della delibera 8/2013/G).

Nella TAB 5 (vedasi file in pdf qui allegato in calce), sono stati calcolati gli importi delle “incoerenze” che, per le due annualità in questione (2006 e 2007), risultano pari, riguardo a squadrature inferiori a 10mila euro, a 20,374 miliardi. Mentre oltre i 10mila euro esistono incoerenze pari a 26,362 miliardi.

Nella successiva TAB 6 (vedasi file in pdf qui allegato in calce) viene riportata la distribuzione dell’universo degli accertamenti eseguiti “da elenco”, distinguendo: gli annullati, gli impugnati, i definiti (questi ultimi, o a seguito di riduzione concordata dell’imponibile, o a seguito di accettazione integrale dell’accertamento, non assoggettato a ricorso).

Guardando le cifre in tabella, il primo elemento che colpisce (assai negativamente) è, per un verso, la cifra risibile sia degli accertamenti impugnati sia di quelli definiti con accordo. E, per altro verso, la quota ragguardevole degli accertamenti “ignorati”. Si tratta, a quest’ultimo riguardo, di accertamenti notificati (verosimilmente) a società-paravento (cioè, a scatole vuote intestate formalmente a soggetti-teste di legno), al punto che chi riceve la notifica non si preoccupa di impugnare, né manifesta l’intenzione di pagare un minimo, onde ottenere l’abbattimento delle sanzioni per acquiescenza.

In particolare, l’84%  degli accertamenti (per un valore pari al 90% dell’addebito totale accertato) è stato ignorato. Ma la quota accertata, a sua volta,  in termini di numero accertamenti era stata pari al 23% degli oltre 400mila casi di squadratura oltre la soglia di 10mila euro (prudenzialmente in questa sede, così come fa la Corte dei conti, vengono considerati del tutto irrilevanti i 20,374 miliardi riferiti a 4,5 milioni di squadrature d’importo sotto i 10mila euro).

In definitiva, a fronte di una potenziale base imponibile Iva nell’ordine di 26,362 miliardi, l’Agenzia delle Entrate ha addebitato imposte per 4,063 miliardi (8,263, se si include nel conteggio l’importo delle sanzioni irrogate). Ma, degli 8,263 miliardi addebitati, 7,408 sono risultati un lavoro inutile, poiché notificati a soggetti che li hanno ignorati. Per cui, tutto questo carico – come ammette correttamente la stessa Corte dei conti –

«si tradurrà in azioni esecutive affidate ad Equitalia che, con molta probabilità, come conferma l’esperienza storica, diverranno quote inesigibili fra alcuni anni».

Per avere un quadro d’insieme della situazione si vedano le TAB 6 e 7 (vedansi file in pdf qui allegati in calce). Da tali prospetti si evince come i numeri parlano da soli. In quanto, a fronte di oltre 8 miliardi addebitati con appositi accertamenti, il 90%, ovvero 7,408 miliardi, è stato ignorato dai destinatari, mentre solo il 7% (561 milioni) è stato assoggettato a ricorso, con un incassato pari a 130 milioni (2% dell’addebito totale iniziale), comprensivi di interessi e sanzioni.

 

8. Conclusioni

L’elenco clienti, non v’è alcun dubbio, è strumento assai utile nelle strategie di contrasto all’evasione di massa.

Tuttavia, la sua utilità per finalità anti-evasione non si realizza certo in conseguenza del semplice ‘effetto-annuncio’, ovvero in conseguenza dell’averne solo previsto l’obbligatorietà di presentazione in Gazzetta Ufficiale. Sono quarant’anni che sulle partite Iva cadono ogni anno adempimenti a oltranza, quasi tutti destinati a rimanere sulla carta, privi di effetto. Ormai i contribuenti lo hanno capito da anni.

Per avere effetti anti-evasione, pertanto, era necessario che dietro l’obbligo di allegazione dell’elenco ci fosse stato da parte dell’amministrazione finanziaria tutto un lavoro istruttorio appropriato e professionalmente sensato. In modo che i contribuenti a massimo rischio (vale a dire i delinquenti fiscali) si vedessero raggiunti massivamente da addebiti in forma mirata. Proprio ciò che invece è mancato o, comunque, ha peccato di efficacia. L’elenco clienti è infatti strumento analitico e mirato, ideale per scovare, grazie anche alle tecnologie infotelematiche, non solo le squadrature che si annidano sottotraccia nella contabilità di milioni di partite Iva, ma anche la cifra dell’imposta singolarmente evasa, e dunque quella direttamente di già accertabile, tout court e senz’altri ostacoli o istruttorie di sorta destinate a durare in eterno.

Proprio su questo terreno, però, la macchina preposta all’accertamento postumo per gli anni 2006 e 2007, ha fallito. I dati menzionati dalla Corte dei conti, evidenziati nel precedente paragrafo 8, con le correlate tabelle ivi citate, sono la prova evidente di un malfunzionamento profondo del sistema in sé, nel suo complesso (che meriterebbe ulteriori approfondimenti d’indagine da parte della stessa Corte dei conti, soprattutto in merito alla individuazione di nuovi strumenti per arginare il dilagante fenomeno della cosiddetta “evasione da riscossione”).

Un sistema che – stando sempre ai dati forniti dalla stessa Corte dei conti – è stato capace di intercettare meno di un quarto delle oltre 400 mila maxi-squadrature evidenziate (anche se i termini di prescrizione non erano ancora chiusi e c’è stato tempo per emettere ancora una piccola quota di altri accertamenti, relativamente al solo 2007). Ciò sulla base di un incrocio di dati abbastanza grossolano (che ha intercettato solamente i casi limite, tipo la mancata dichiarazione). E, per di più, riuscendo a colpire, nel 90 per cento dei casi, soggetti risultati teste di legno, dietro i quali si nasconde gente senza scrupoli che non ha avuto bisogno di scomodarsi più di tanto di fronte alla notifica di accertamenti milionari (manco per presentare uno pseudo-ricorso ad effetti dilatori).

Insomma, un lavoro di certo meritorio e tecnicamente ineccepibile, quello svolto dall’Agenzia delle Entrate. Ma purtuttavia svolto a vuoto per circa 7,5 miliardi di addebito. E, per di più, destinato a nuocere ancora, ingolfando nelle fasi successive (come avverte la Corte), anche la catena susseguente dei meccanismi di riscossione forzata ricadenti sulle spalle di Equitalia (anch’essa costretta a girare a vuoto, di conseguenza, nel 90 per cento dei casi).

Meraviglia, pertanto, che la Corte dei conti, condizionata probabilmente da un approccio moralistico, tanto irreprensibile quanto al tempo stesso fuorviante, abbia voluto guardare al dito piuttosto che alla luna. Evitando così di accendere un faro sulle vere criticità emerse, che probabilmente trovano origine in dinamiche che vanno oltre l’Agenzia delle Entrate, in quanto non rientranti nei poteri d’intervento propri.

L’auspicio è, pertanto, che “il nuovo che avanza” intorno ai nuovi giovani leaders di partito, abbia la saggezza di saper guardare alla luna, piuttosto che al dito. Ben sapendo che “guardare alla luna” significa  in questo caso mettersi in una posizione scomoda, ovvero sobbarcarsi anzitutto la fatica di un’analisi puntuale, neutrale e documentata di quanto accaduto negli ultimi lustri, fatica che è di portata immane dentro una realtà di così gigantesche dimensioni. E, in secondo luogo, correre concretamente il rischio di dover aprire strade nuove e inesplorate, e dunque, per certi versi, meno sicure rispetto ai comodi itinerari del passato. Proprio quelli, però, che in oltre trent’anni non hanno portato altro che risultati deludenti, da sempre fallimentari e, comunque, da sempre sotto gli occhi di tutti.

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