Il trasporto ferroviario delle merci dopo la trasformazione delle ferrovie italiane in società per azioni

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1. La partita persa dall’Italia nella logistica

 

Negli anni Ottanta del secolo passato si è accelerato il processo di globalizzazione dei mercati, guidato anche dalla riduzione dei costi di trasporto e di logistica su scala mondiale, che hanno reso possibili delocalizzazioni industriali prima impensabili. Le catene logistiche si sono allungate e ridisegnate, i porti hanno assunto una diversa rilevanza nell’assetto dei flussi di merce su scala globale, è cresciuto intensamente il trasporto di containers e si è sviluppata decisamente l’intermodalità.

 

I modelli di produzione industriale sono stati radicalmente ripensati, la rete dei magazzini si è trasformata secondo disegni coerenti con la globalizzazione, le grandi multinazionali industriali hanno richiesto sempre più servizi integrati di logistica, che possono essere offerti solo da aziende specializzate e integrate nei diversi modi di trasporto e nei servizi accessori, con una visione unitaria dei processi.

 

Chi offre vezione, sia essa ferroviaria o camionistica, è diventato anello di una catena che allontana il cliente finale dalla contrattualizzazione con la singola modalità di trasporto, mentre gli integratori di sistema (i logistic service providers) diventano gli attori protagonisti del mercato.

 

Mentre si avviavano verso il percorso di trasformazione in società per azioni, le ferrovie italiane hanno tentato, all’inizio degli anni Novanta, un’operazione di posizionamento sul mercato della logistica, con l’acquisizione del 20% delle azioni di Saima Avandero.

 

Questo inizio di percorso venne bloccato dopo la prima metà degli anni Novanta, proprio mentre altri attori del sistema ferroviario, come le ferrovie tedesche ma anche come le ferrovie francesi, hanno cominciato più decisamente a comprendere che, restando solo sul fronte della vezione ferroviaria, il trasporto ferroviario delle merci rischiava una nuova stagione di marginalizzazione.

 

In Italia la strategia è risultata fortemente altalenante, con accelerazioni ora in un senso ora in un altro. Per diversi anni, alla fine degli anni Novanta, con una negoziazione tra alti e bassi, le ferrovie italiane e le ferrovie svizzere hanno tentato di realizzare una joint venture che integri i due rami di azienda nel settore cargo. Dal punto di vista strategico, i vantaggi erano evidenti soprattutto per gli Svizzeri, che, essendo Paese di transito, avrebbero potuto finalmente superare questa loro debolezza strutturale, mediante l’integrazione con un Paese come l’Italia, matrice di origine e destinazione di flussi rilevanti di merce.

 

Si sarebbe trattato, in ogni caso, di una alleanza industriale tra due aziende specializzate esclusivamente nella pura vezione ferroviaria, senza un respiro ed una apertura verso quella dimensione logistica che costituiva un inevitabile riferimento determinato dai processo di globalizzazione del sistema produttivo mondiale.

 

In ogni caso, nemmeno quella mossa difensiva andò a buon fine, in quanto si arenò sostanzialmente su un dissidio tra le due aziende circa i meccanismi di governance societaria della joint venture e circa la valorizzazione patrimoniale dei rispettivi apporti.

 

Mentre era stata ormai del tutto abbandonata la strada del posizionamento sul mercato della logistica, per altro verso, dopo il fallimento della joint venture con le ferrovie svizzere, si è proceduto in direzione di una timida integrazione europea della vezione ferroviaria, con l’acquisizione ed il progressivo consolidamento da parte di Trenitalia di TX Logistics, una delle aziende ferroviarie presenti sul mercato tedesco, che negli anni si è proposta come attore della penetrazione su mercati europei, mediante una presenza diretta e con una specifica base di clientela.

 

Da allora, e sino ad oggi, le ferrovie italiane, nel settore cargo, sono rimaste, ad eccezione della acquisizione di TX Logistics, in una condizione di sostanziale isolamento strategico, prive di una apertura verso la leva dello sviluppo logistico con  posizionamento esclusivamente nei servizi di vezione ferroviaria.

 

Per sintetizzare le drastiche differenze di scelta strategica, mentre le ferrovie tedesche hanno investito più di quattro miliardi di euro per posizionarsi sullo scacchiere europeo del mercato logistico, le ferrovie italiane hanno investito nel settore merci qualche decina di milioni di euro per l’acquisizione di TX Logistics. Il parallelogramma delle forze in campo non poteva avere l’esito che poi si è effettivamente determinato.

 

Intanto, il mercato italiano dei servizi logistici ha mantenuto le sue caratteristiche di frammentazione, ed è diventato progressivamente colonia delle principali multinazionali del settore, che hanno scalato i posti in graduatoria per fatturato e per redditività[1]. Nel numero di settembre 2012, il Giornale della Logistica ha pubblicato la classifica delle prime 1000 aziende che offrono al mercato italiano servizi logistici. I risultati si riferiscono ai dati di bilancio del 2010. Ne viene fuori, una conferma, ancor più fosca, sulla ormai consolidata colonizzazione logistica del nostro Paese.

 

Ai primi dieci posti della graduatoria, sono presenti solo due aziende di proprietà italiana (Bartolini al secondo posto ed Arcese al settimo). Scalano invece il ranking delle prime dieci imprese molte aziende multinazionali, con recuperi di posizione in alcuni casi robusti. Entrano in classifica tra le prime dieci aziende Schenker Italiana Spa, l’azienda logistica di proprietà delle ferrovie tedesche, che passa dal 12esimo al quinto posto, e JAS, che dal 14esimo posto arriva al decimo. Recupera posti anche Geodis, il gruppo francese, che dal decimo posto arriva al sesto, mentre due gruppi internazionali restano tra i primi dieci ma perdono posizioni: Kuhne & Nagel passa dal quinto al nono, ed UPS dal sesto all’ottavo.

 

Al primo posto nella graduatoria si conferma DHL, la società di logistica delle Poste tedesche, mentre restano saldamente al terzo ed al quarto posto rispettivamente Saimavandero e Ceva Logistics Italia. Insomma, dopo tante chiacchiere sull’Italia come piattaforma logistica del Mediterraneo, quello che è certo che al comando di questa portaerei, se mai lo sarà, non avremo imprenditori italiani.

 

E, in un mondo sempre più globalizzato, lasciare la logistica nelle mani di gruppi che non hanno in Italia la loro intelligenza strategica, forse rappresenta uno svantaggio competitivo intangibile per il sistema industriale del nostro Paese. La Germania, come si vede dai risultati in graduatoria di DHL e di Schenker, società di logistica rispettivamente delle poste e delle ferrovie tedesche, ha condotto invece una politica di posizionamento strategico, che costituisce una delle ragioni del vantaggio competitivo che quel sistema economico ha costruito nel corso degli ultimi due decenni.

 

 

2. Le conseguenze economiche della trasformazione delle ferrovie in società per azioni

 

Intanto, la trasformazione in società per azioni delle ferrovie, avvenuta ormai venti anni fa, costringeva opportunamente l’azienda ad operare in una logica di efficienza economica, anche nel settore del traffico ferroviario delle merci. Questo vincolo ha operato sostanzialmente in due direzioni:

 

scremare il mercato servito, abbandonando una politica di prezzi assolutamente slegata dai costi di produzione del servizio, soprattutto nel settore della intermodalità ferroviaria, che aveva registrato in Italia una crescita di volumi sostanzialmente per effetto di scelte di prezzi bassi da parte del vettore ferroviario, che in questo modo consentiva di recuperare competitività all’intera catena intermodale a discapito della profittabilità per l’azienda ferroviaria[2];

avviare una drastica riduzione degli scali pubblici aperti al mercato, che erano in numero radicalmente ridondante rispetto alla dimensione del mercato servito (oltre 550 scali operativi), determinando una forte dispersione dell’offerte ed elevati costi di produzione per strutture fisse che generavano volumi marginali di traffico.

 

Tuttavia, questo inizio di ristrutturazione senza una dimensione strategica di riposizionamento poteva necessariamente determinare, come poi è effettivamente accaduto, esclusivamente un drastico calo dei volumi di traffico ferroviario. Tale processo, poi, a partire dal 2008, si è incrociato anche con gli effetti della crisi economica, e con il drastico calo di domanda di trasporto a seguito della contrazione della produzione industriale.

 

La sommatoria di questi due effetti, vale a dire la ristrutturazione dell’offerta ferroviaria e la contrazione complessiva del mercato del trasporto per effetto della crisi, hanno condotto sostanzialmente ad un radicale ridimensionamento dei volumi di traffico ferroviario servito da Trenitalia, passati da circa 60 milioni di treni/km prima della societarizzazione agli attuali circa 30 milioni.

 

 

3. I percorsi della liberalizzazione ferroviaria del trasporto merci

 

Mentre Trenitalia operava in logica di razionalizzazione senza riposizionamento, intanto il mercato ferroviario merci si apriva progressivamente alla liberalizzazione per effetto delle regole europee: nel 2007 le regole per l’accesso di nuove imprese sul mercato erano sostanzialmente tutte operative.

 

In questi cinque anni i volumi trasportati per ferrovia dai new comers sul mercato italiano del trasporto ferroviario sono cresciuti: oggi operano nel settore merci tredici aziende che posseggono licenza ferroviaria e certificato di sicurezza, ed i volumi trasportati dai nuovi entranti sono pari a poco meno di 10 milioni di treni/km, che si aggiungono ai circa 30 milioni trasportati oggi da Trenitalia.

 

La concorrenza si è determinata sostanzialmente, ed era inevitabile che ciò fosse, laddove il mercato ferroviario è più denso, vale a dire a ridosso dei transiti transalpini. Buona parte del traffico ferroviario nazionale infatti è più appendice delle matrici origini/destinazione di altri mercati, piuttosto che una proiezione delle scelte effettuate dal mercato nazionale.

 

Gran parte delle aziende esportatrici italiane vendono difatti la propria merce “franco fabbrica”, delegando implicitamente la scelta della soluzione di trasporto e logistica ai mercati finali di sbocco, sottraendo per questa via parte rilevante del valore della produzione agli operatori che sono presenti sul nostro mercato.

 

In sintesi, la storia recente del trasporto e della logistica nel nostro Paese non è un grande successo. Con la liberalizzazione ferroviaria, l’Europa intendeva promuovere un meccanismo di apertura del mercato finalizzata alla crescita dei volumi complessivi di trasporto ferroviario. “L’assunzione fondamentale della liberalizzazione ferroviaria europea consiste nel fatto che il settore ferroviario richiedeva una riforma per arrestare il declino in termini di quota di mercato e che questo obiettivo poteva essere raggiunto mediante la formazione di un ambiente liberalizzato”[3].

 

In Italia, a differenza che altrove, questo non è accaduto. E’ vero che la crisi economica perdurante è certamente causa concomitante del calo complessivo, ma anche un ambiente economico diverso non avrebbe, con ogni probabilità, determinato esiti diversi. Quali sono le ragioni di questo risultato ? Per spiegarsi gli esiti non positivi della liberalizzazione ferroviaria del trasporto ferroviario merci in Italia occorre guardare sia a cause esogene sia a cause endogene.

 

 

Sul fronte esterno al settore ferroviario in senso stretto, va detto che è mancata completamente una politica dei trasporti coerente con gli obiettivi della liberalizzazione:

 

da un lato, sono proseguiti in Italia gli aiuti di Stato all’autotrasporto, che non sono un male in sé, ma si sono rilevati tali in quanto non sono stati finalizzati ad una ristrutturazione e ad una riorganizzazione del settore: si sono difatti limitati a tenere in vita un comparto in crisi strategica, polverizzato dal punto di vista dell’offerta; l’avvio di una competizione intramodale nel settore ferroviario, mentre la competizione intermodale si svolge in presenza di incentivi distorti da parte dello Stato non è destinata a generare effetti positivi;

inoltre, una geometria variabile della liberalizzazione ferroviaria merci su scala comunitaria non ha molto aiutato il processo di formazione di un mercato effettivamente comunitario: le politiche di fissazione dei pedaggi di accesso alle diverse reti ferroviarie europee sono rimaste leva nelle mani degli Stati nazionali, e sono estremamente diversificati come valore economico; la stessa standardizzazione degli standard tecnologici per materiale rotabile e per modelli di circolazione, che sono comunque processi industriali lenti da armonizzare, ha proceduto con estrema prudenza e lentezza, probabilmente sotto la pressione delle varie industrie produttrici. I tentativi di costruire corridoi integrati su scala europea per il trasporto ferroviario delle merci (ad esempio con il meccanismo del “one-stop shop” per la collocazione e la gestione delle tracce orarie) sono andati poco al di là delle mere dimostrazioni sperimentali;

dall’altro, è mancata una politica industriale di accompagnamento alla liberalizzazione ferroviaria, che ponesse l’incumbent nella condizione di reagire allo shock della apertura alla concorrenza del mercato mediante una ristrutturazione che consentisse di recuperare fattori di vantaggio competitivo; liberalizzare un settore in strutturale perdita economica, come quello del trasporto ferroviario, senza meccanismi di supporto al riposizionamento competitivo, conduce inevitabilmente ad una ristrutturazione senza sviluppo.

 

Analizzando le cause endogene, il settore cargo è rimasto, dentro l’azienda ferroviaria ex-monopolista, in una condizione di sostanziale marginalità strategica. Risorse ed energie manageriali sono state assorbite dall’avvio dell’alta velocità passeggeri e dalla regionalizzazione del trasporto dei pendolari, con la costruzione di un algoritmo logistico di corrispondenza tra obblighi di servizio pubblico e corrispettivi coerenti da parte dei committenti regionali.

 

In Italia non si è nemmeno ancora completata l’infrastruttura di regolazione coerente con il disegno della liberalizzazione ferroviaria. Ancora non ha visto luce, dopo una lunghissima gestazione, l’Autorità dei trasporti[4], che dovrà essere il soggetto indipendente di regolazione incaricato di verificare la coerenza tra l’impianto normativo responsabilità delle istituzioni politiche rispetto ai comportamenti degli operatori, analizzando come terza parte quelle regole (come i pedaggi di accesso alla rete, le condizioni di utilizzazione delle essential facilites) che costituiscono elementi sostanziali per assicurare l’effettività del processo di liberalizzazione nella pienezza dei suoi effetti.

Ad oggi, a sovraintendere al processo di liberalizzazione ferroviaria è chiamato l’Ufficio di regolazione dei servizi ferroviari, che è un dipartimento del Ministero dei trasporti e delle infrastrutture, ed in quanto tale esprime inevitabilmente un difficile equilibrio tra autonomia di giudizio e sottoposizione all’indirizzo politico. “La mancanza di separazione nella proprietà, assieme alla mancanza di poteri di autorità indipendenti, favorisce una convergenza di interessi (specialmente limitando gli effetti della competizione), anche se gli aspetti delle normative formali sono rispettati”[5].

 

4. Che fare ora? Percorsi per un difficile rilancio del trasporto ferroviario cargo in Italia

 

Insomma, a distanza di venti anni dalla trasformazione delle ferrovie italiane in società per azioni, ed a distanza di cinque anni dall’avvio della piena liberalizzazione del trasporto ferroviario delle merci in Europa, restano sul tappeto ancora insolute le ragioni che hanno spinto alla marginalizzazione di questa modalità di trasporto nel sistema italiano della logistica.

 

Sarebbe forse il caso che se ne discutesse di più, per entrare nel merito dei tanti nodi irrisolti, senza le solite vuote giaculatorie sulla necessità di allargare la penetrazione del trasporto ferroviario delle merci. Per farlo, servirebbe innanzitutto superare le retoriche che non considerano gli aspetti strutturali del mercato.

 

Nell’investire per il quadruplicamento degli assi principali della rete ferroviaria nazionale, si è realizzata una nuova infrastruttura che consentisse anche l’accesso dei treni merci: non serviva a nulla, dal momento che le merci non richiedono velocità, ma affidabilità e frequenza, che erano già garantite dalla liberazione delle tracce sulla rete storica per effetto della nuova capacità generata per i treni passeggeri veloci. Insomma, è costato di più l’investimento, teoricamente per dare un vantaggio allo sviluppo del trasporto merci per ferrovia.

 

Con quelle risorse, più opportunamente, si sarebbero potuti realizzare da un lato potenziamenti selettivi nei nodi e nei terminali che oggi costituiscono collo di bottiglia per la fluidificazione del traffico e dall’altro quelle innovazioni tecnologiche indispensabili a rendere maggiormente competitiva la soluzione ferroviaria, soprattutto nelle operazioni di terminalizzazione negli scali, che aggravano i costi della vezione ferroviaria, allontanandola dalla competitività nella filiera della catena logistica.

 

Si pensi ad esempio all’annoso problema, ancora non risolto, dei costi delle manovre nei porti italiani, assolutamente fuori mercato, oppure alla accessibilità del trasporto ferroviario merci nelle grandi aree metropolitane, che sono i grandi mercati attrattori di consumi e di produzione, e che ormai risultano non più aggredibili per effetto della scelta di aver delocalizzato fuori dalla cinta urbana gli scali intermodali, aumentando per questa via i costi di terminalizzazione camionistica per le merci in origine ed in destinazione alle grandi città.

 

Non si è nemmeno ripensata la rete dei raccordi industriali. Quello che si è fatto è aver progressivamente reso non più operativi i raccordi che hanno perso funzione industriale per effetto delle delocalizzazioni, mentre non si sono ripensati e costruiti nuovi raccordi nelle aree di nuovi insediamenti industriali, favorendo anche per questa via una marginalizzazione della soluzione ferroviaria.

 

Non si sono operate azioni per invertire la tendenza delle aziende italiane esportatrici a vendere “franco fabbrica”, perdendo per questa via il controllo della matrice dei flussi, assegnando un pezzo strategico della catena del valore alle scelte delegate agli operatori presenti nei mercati di sbocco.

 

Ma, soprattutto, sarebbe necessaria una impostazione coerente di politica dei trasporti, e di politica industriale, che indirizzi risorse ed incentivi verso una stagione di sviluppo della modalità ferroviaria, in un disegno di riorganizzazione logistica del Paese che tenda a puntare sul potenziamento dei principali porti ed interporti strategici, per favorire davvero una ripartenza della intermodalità.

 

Continuare ad inseguire la logica dei localismi e delle tante piattaforme logistiche che servono solo a perpetuare un disegno immobiliarista, non ha davvero più senso, per la qualità della domanda espressa dal mercato. Nessun segno, tuttavia, va in questa direzione.

 

La stessa Unione Europea, anche al di là dei limiti specifici di quanto è accaduto in Italia, dovrebbe interrogarsi sulla efficacia della pura liberalizzazione per determinare quella svolta nella ripartizione modale che pure viene richiamata nei documenti di programmazione della Commissione Europea.

 

Appare difficile che, rebus sic stantibus, si possa conseguire in Europa quell’obiettivo di spostare dalla strada alla ferrovia il 30% delle merci per i trasporti superiori ai 300 km entro il 2030, ed il 50% entro il 2050[6]. Si tratterebbe, secondo le stime effettuate da Chris Nash[7], di un aumento dei volumi trasportati per ferrovia pari all’87% dei volumi europei registrati nel 2005, prima della crisi.

Senza misure decise di internalizzazione dei costi esterni per tutte le modalità di trasporto[8], su cui sinora non si è registrato sufficiente consenso tra gli Stati membri, è difficile immaginare che la liberalizzazione di per sé possa condurre ad un così deciso mutamento di preferenze nelle scelte del mercato.

 

E senza una modifica strutturale delle scelte dei consumatori, cittadini per il trasporto viaggiatori ed imprese per il trasporto merci, è difficile immaginare che l’Europa possa conseguire quell’obiettivo fissato di riduzione del 60% dei gas che provocano l’effetto serra nel settore europeo dei trasporti.

 

Si tratta quindi di questioni che non riguardano solo il sistema economico, ma che si riflettono anche sulla qualità della vita dei cittadini e sul modello stesso di sviluppo delle nostre società. Proprio per questo colpisce che se ne discuta così poco, in una ristretta cerchia di addetti ai lavori che rischiano di ripetere le solite litanie, mentre la realtà di allontana sempre più dagli obiettivi che vengono proclamati dalle istituzioni decisionali della politica, siano essere la Commissione Europea o i Governi nazionali.

 

Il tempo che abbiamo perduto, e le scelte che non abbiamo fatto, non ci potranno essere restituite. Sarebbe proprio per questo auspicabile marcare una decisa inversione di rotta, nella consapevolezza che il compito di ridisegnare il sistema nazionale ed europeo dei trasporti è impresa davvero difficile. Sarebbe il caso di cominciare a rimboccarsi le maniche.

 

 

 

[1]  P. Spirito, “La colonia logistica”, blog in www.huffingtonpost.it, 15 ottobre 2012.

 

[2] I prezzi bassi nei servizi di trasporto sono stati uno dei pilastri impliciti di una errata politica industriale apparentemente a sostegno delle imprese manifatturiere nazionali. I prezzi di questa politica sono stati pagati per anni da un lato con le perdite di bilancio delle ferrovie nel settore merci e dall’altro con gli aiuti di Stato all’autotrasporto. In un sistema economico che, negli ultimi due decenni, ha cambiato radicalmente le sue coordinate di riferimento, trasformando il trasporto e la logistica in uno degli asset decisivi della competitività industriale, l’Italia si è trovata impreparata a questo appuntamento, ed ha scelto di proseguire in una impostazione errata di supporto implicito ai prezzi artificiosamente bassi della vezione, pagandone il prezzo in termini di inefficienza complessiva di questo fondamentale servizio di supporto alla globalizzazione.

 

[3] P. Beria, E. Quinet, G. de Rus, C. Schulz, “A comparison of rail liberalisation levels across four European countries”, in Research in transport economics, 36 (2012), p. 110.

 

[4] Il Governo, successivamente alla istituzione nel 2012 della nuova Autorità, ha provveduto alla nomina dei Commissari e del Presidente, ma il Parlamento, per opposti veti incrociati, non ha ancora proceduto alla votazione sui componenti. Intanto, la legislatura volge al termine, e comincia a delinearsi il rischio che di questo tema si parlerà a metà del prossimo anno, a seguito dell’insediamento del nuovo Parlamento.

  

[5] P. Beria, E. Quinet, G. de Rus, C. Schulz, “A comparison of rail liberalisation levels across four European countries”, in Research in transport economics, 36 (2012), p. 114.

 

[6] Commissione Europea, “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile”, COM (2011) 144 definitivo.

 

[7] Chris Nash, “European Union trasport policy and sustainability – The role of the rail”, dattiloscritto, Leeds, 2011.

 

[8] Cfr. il Libro Verde della Commissione Europea, “Towards fair and efficient pricing in transport”, 2005.

 

 

 

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