Il ruolo della privacy nella competizione fra Facebook e Google

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La privacy sta diventando un fattore strategico del confronto concorrenziale nel mercato della pubblicità digitale.

Lo dimostrano la recente quotazione in borsa di Facebook, la decisione di Google e Facebook di modificare le loro politiche di privacy (nel 2010 Zuckerberg ha pubblicamente sostenuto la tesi della necessità di adeguare le regole della privacy alla nuova realtà del mercato, negativamente commentata da Kirkpatrick (http://rww.to/Nkg5IF) e anche la multa (22,5 mln $, la più alta mai avvenuta nel mondo in tema di privacy) che la Federal Trade Commission si appresta a infliggere a Google per aver violato le procedure di anonimato previste sul brower di Apple Safari. (http://rww.to/OAsA2w)

 

La concorrenza fra Google e Facebook è basata su un modello di business di vendita di spazi pubblicitari sulle rispettive piattaforme. Queste mettono in comunicazione, ad oggi con efficacia superiore rispetto a quella dei loro concorrenti, i due lati del mercato – si tratta di tipici esempi di mercati a più versanti – delle risorse pubblicitarie e dei servizi agli utenti, in cui le imprese investono in cambio di contatti, generati dall’offerta gratuita di servizi, di ricerca per Google, di Social Network (d’ora in poi, SN) per Facebook.

 

L’avvento di Internet, che ha radicalmente cambiato gli economics del marketing, ha fatto diventare cruciali le politiche di privacy. Quando non c’erano le comunicazioni digitali, la raccolta di dati sui clienti presentava elevati costi variabili: in un’indagine tradizionale di mercato basata su interviste sul campo i costi erano proporzionali al numero delle interviste realizzate. Il marketing digitale presenta invece alti costi fissi iniziali di impianto, ma bassi costi variabili, in molti casi praticamente nulli.

L’interattività di Internet semplifica enormemente la rilevazione dei dati individuali, è facilmente reiterabile nel tempo e nello spazio in modalità praticamente istantanea, e consente di effettuare stime precise della disponibilità a pagare dei consumatori, simulazioni, esperimenti e miglioramenti pressoché continui del sistema.

 

L’accresciuta efficienza nella raccolta delle informazioni, se implica una migliore capacità di profilazione dei potenziali clienti e la possibilità di offrire prezzi personalizzati, solleva anche crescenti timori da parte dei consumatori sui rischi di essere spiati senza averne piena conoscenza e consapevolezza.

 

Fra gli economisti non vi era identità di vedute sulle policy relative alla privacy. Mentre la scuola di Chicago (Stigler, Posner) sosteneva inizialmente (ma il tema non era così rilevante) che la materia non va regolata perché il mercato è in grado di trovare da solo l’ottimo sociale, altri, ad esempio Eli Noam, sostenevano che per consentire agli individui di controllare la raccolta e l’uso che si fa delle loro informazioni vanno invece attribuiti diritti di proprietà esclusivi di privacy.

 

Dopo l’istituzione di specifiche autorità preposte alla tutela della privacy, è prevalsa la seconda tesi: solo l’attribuzione di diritti esclusivi ai consumatori è in grado di risolvere l’esternalità diretta negativa, che si genera quando il consumatore subisce un’intrusione di terzi con offerte promozionali non desiderate. Solo con regole che attribuiscono diritti al consumatore, infatti, le imprese di marketing sono spinte ad internalizzare nelle loro scelte i costi privati che impongono ai consumatori.

 

Google e Facebook competono fra loro non tanto sulla chiarezza delle policy di privacy applicate – è evidente l’importanza di apparire compliant agli occhi dei consumatori – quanto piuttosto sullo sfruttamento commerciale del diverso atteggiamento sulla protezione dei dati personali che gli stessi consumatori mostrano quando inseriscono le proprie informazioni sui SN rispetto a quello di quando effettuano ricerche sul web.

 

I meccanismi di scelta dei consumatori sulla privacy appaiono particolarmente complessi, soggetti a 5 fattori che la condizionano:

 1) Informazione limitata, in particolare su costi e benefici della scelta, sulla disponibilità di tecnologie di protezione o di opzioni di privacy nella specifica transazione e sui rischi potenziali dovuti ad un uso improprio dei dati una volta che questi sono stati rilasciati.

 2) Razionalità limitata dei consumatori, che incontrano difficoltà a stimare correttamente costi e benefici dato il complesso dei fattori da tenere in considerazione.  

 3) Distorsioni psicologiche, derivanti dalla multidimensionalità della psiche umana, che di fronte a situazioni complesse tende a modellare i comportamenti in termini duali: da un lato agisce una personalità pianificatrice e dall’altra una personalità miope, che riflette conflitti interni non sempre armonizzabili. Nel caso della privacy la difficoltà è acuita dal fatto che gli individui tendono a sottovalutare i rischi e le perdite di lungo periodo.

 4) Ideologia e atteggiamenti personali, che valgono per quei consumatori che ritengono la privacy un diritto rinforzato, un bene pubblico (come la difesa) per la cui protezione deve provvedere gratuitamente lo stato. Come per tutti i beni pubblici, emergono comportamenti di free riding (del problema se ne occupi qualcun altro), che rendono meno incisiva l’azione di politiche pubbliche.

 5) Comportamenti di mercato. L’individuo potrebbe decidere razionalmente di non utilizzare tecnologie di protezione della privacy perché i costi del loro utilizzo (apprendere le procedure, evitare errori, ecc.) gli appaiono più alti delle perdite attese di un’eventuale intrusione. Sul web egli sottovaluta i danni derivanti dalla perdita di controllo dei propri dati personali perché ritiene che la probabilità che ciò avvenga sia bassa.

 

Quest’ultimo aspetto è quello rilevante nella competizione fra Google e Facebook (e in generale fra motori di ricerca e SN). Il SN è “il” forum per condividere materiali, informazioni e contenuti: fornisce un’opportunità unica per comunicare, ma presenta anche rischi di intrusione nella sfera privata, perché quando il consumatore inserisce i propri dati personali, ne perde il controllo. Accettando di iscriversi ad un SN, si da licenza al suo gestore di usare tutti i dati volontariamente inseriti.

Con Facebook, una volta esclusi gli omonimi si può disporre non solo dell’indirizzo di casa di chi si cerca e i suoi numeri telefonici, ma anche i suoi gusti, preferenze, nonché ciò che scrivono di lui i suoi amici e i gruppi a cui egli appartiene. Con i motori di ricerca, invece, non c’è un interesse specifico del consumatore a rilasciare dati personali, e quest’ultimo desidera precisione nella ricerca senza rendersi conto che sono le sue caratteristiche personali ad accrescere la rilevanza del risultato. In altre parole, nel mercato della privacy i SN sono potenzialmente avvantaggiati rispetto ai motori di ricerca.

 

Il punto cruciale è la user experience dell’utente, molto diversa sotto il profilo psicologico fra le due piattaforme: razionale e individuale nel caso del motore di ricerca; emotiva, collettiva e virale in quello dei SN. L’utente utilizza il proprio lato razionale quando cerca contenuti sul web attraverso un’esperienza puramente individuale, mentre quando inserisce i propri contenuti sul SN o cerca informazioni su individui iscritti mette in gioco anche i propri lati emotivi.

 

Con i motori di ricerca il consumatore effettua la scelta se fornire propri dati personali o negarli su base razionale, perché per lui conta solo il risultato immediato della ricerca. La sua disponibilità a concederli è piuttosto bassa, perché percepisce l’asimmetria esistente fra le proprie finalità di ricerca e il rilascio dei suoi dati: vede con fastidio le inserzioni personalizzate se non perfettamente coerenti con la propria ricerca. Questa è, peraltro, la ragione della forza di Google, che dispone di algoritmi di eccellenza nel collegamento fra parole chiave ricercate e inserzioni che minimizzano tale fastidio.

Al contrario, nei SN l’asimmetria fra servizi e rilascio di dati personali viene meno, perché il consumatore nel condividere contenuti con amici e conoscenti – ovvero la vera ragione del suo utilizzo della piattaforma – dà per ovvio e scontato il rilascio di informazione personali.

 

Tuttavia il vantaggio del SN rispetto al motore di ricerca si ribalta sul lato del mercato degli inserzionisti pubblicitari. Infatti la funzione search dei motori di ricerca lega semanticamente inserzioni esposte (attraverso le aste) ed esperienza di ricerca, e se tale funzione è efficace, il consumatore tende ad essere interessato ad effettuare acquisti per beni e servizi che corrispondono alle sue ricerche.

Non così per i SN, in cui le inserzioni pubblicitarie sono decise discrezionalmente, e nonostante lo sforzo del gestione della piattaforma di legare con più efficacia possibile contenuti e inserzioni, l’interesse del consumatore ad effettuare acquisti è minore, perché la ragione della sua presenza sul sito non ha come obiettivo un atto individuale come la ricerca o l’acquisto, bensì la partecipazione di contenuti (scritti, foto, video) con altri soggetti che gli appare una funzione non commerciale.

 

Questa è una delle ragioni del (supposto) insuccesso dell’IPO di Facebook, in cui il prezzo iniziale di 38$ per azione, fissato il 18 maggio di quest’anno, è sceso fino a 26,31 $ (minimo toccato il 7 giugno): gli analisti e il mercato hanno percepito che il suo modello di business, a differenza di quello di Google, non è ad oggi sufficientemente consolidato.

 

Però l’andamento successivo del titolo, risalito gradualmente fino a toccare 32,17$ (quotazione del 16 luglio), mostra che il mercato continua a credere, seppure con prudenza, alle potenzialità di Facebook, che dispone di uno strumento tecnologico formidabile, il social graph, capace di rilevare le informazioni non solo del singolo utente, ma dell’intera rete dei suoi contatti, incluse le preferenze su temi e prodotti interessanti (generate cliccando il tasto “I like”). Qui Facebook è molto forte, perché l’efficacia commerciale del social graph è tanto maggiore quanto più ampia è la rete formata dagli amici diretti e indiretti: gli iscritti al suo SN sono oggi più di 800 milioni, ben di più dei 170 milioni di Google+.

 

Inoltre, le potenzialità commerciali dei SN di grandi dimensioni come Facebook, essendo in grado di aggiungere alle pagine dei consumatori oggetti, temi e proposte, nonché proporre offerte confezionate sul consumatore, riescono a sfruttare le nuova dimensione dei social commerce e social shopping, in cui i consumatori, organizzati dalla piattaforma in gruppi di discussione, si scambiano informazioni ed esperienze su determinati prodotti o servizi. Una società di ricerca, DecisionStep, ha recentemente misurato l’impatto del social shopping con SN sull’e-commerce: aumenta del 25% la shopping chart, e ben del 50% il valore medio dell’ordine.

 

Tutte queste potenzialità commerciali trovano come limite le regole vigenti di privacy, finora applicate in modo diverso per ciascuno dei servizi offerti da uno stesso gestore di piattaforme.     

Google, sollevando una montagna di critiche, a volte più ideologiche che sostanziali, da parte delle autorità nazionali sulla privacy, ha deciso all’inizio di quest’anno di raggruppare in unico set di regole le proprie politiche di privacy applicate ai suoi servizi. Facebook ha fatto la stessa operazione in aprile, tentando in modo maldestro (http://n.pr/LSeGJ2) di apparire attenta alle opinioni degli iscritti, chiamati ad esprimersi in favore o contro le nuove regole di privacy adottate. Alla luce della natura di bene pubblico della privacy e dei primi 4 fattori incidenti sulle scelte ad essa relative, il risultato non poteva che essere scontato: solo lo 0,00038 % dei respondent si è espresso in favore delle nuove regole.

L’unificazione e semplificazione delle regole di privacy è però più importante per Google che, pur possedendo il miglior servizio di ricerca oggi esistente da cui ricava elevati profitti, non dispone di un SN sufficientemente ampio per sfruttare, come è riuscito a Facebook, le economie di rete e la potenza informativa dei social graph.

Di conseguenza per Google l’unico modo per non perdere la leadership nel mercato pubblicitario è diversificarsi in più segmenti – YouTube, cellulari – cercando di integrare i servizi (e i dati personali ricavati da questi) nel tentativo di introdurre nel proprio sistema, da cui oggi è player secondario, la dimensione dell’esperienza virale ed emozionale di scambio volontario e collettivo di informazioni che con il social shopping ha probabilmente trovato la killer application per un solido modello di business. Integrando i dati dei suoi servizi, Google sta solo cercando, da una posizione di follower, di competere con Facebook nel mercato della privacy, ovvero quello dell’acquisizione dei dati utili per sviluppare servizi pubblicitari efficaci.

Tenere un atteggiamento oltranzista e ideologico sulla privacy, anziché pragmatico e finalizzato a proteggere e aiutare il consumatore a difendersi dai rischi reali e potenziali, rischia solo di distorcere la concorrenza, perché la tecnologia consente spesso di bypassare le regole formali vigenti. Il rischio reale è di penalizzare una delle poche industrie che, nonostante la crisi, continua a crescere a tassi elevati.

 

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