Gli aiuti pubblici nazionali? Si ma serve un arbitro europeo!

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L’onda lunga degli aiuti di stato alle imprese rischia di travolgere il mercato interno europeo e con esso l’Unione Europea. Tutti ci perderebbero. Ma per l’Italia, che all’integrazione europea deve tutto il suo sviluppo economico, politico e culturale, sarebbe una tragedia senza proporzioni, l’equivalente di un’altra guerra persa.

È grave, riteniamo, che il primo ministro francese, non pago di aver ricapitalizzato coi soldi pubblici le finanziarie dei costruttori d’auto francesi – che ovviamente danno credito solo a chi compra auto francesi – annunci la disponibilità di ulteriori sei miliardi di euro per Citroën, Peugeot e Renault, ma a condizione che non “delocalizzino”. Un messaggio per il guardiano della concorrenza sul mercato interno, la Commissione europea, François Fillon comunque l’aveva: quello ultimativo di sbrigarsi a farsi un’idea perché la crisi non può attendere tre mesi. È grave che i sindacati britannici manifestino contro appalti andati a ditte italiane che impiegano italiani. E così via, in un elenco che sarebbe già, purtroppo, abbastanza lungo.

Il dibattito di un paio d’anni fa sulla direttiva servizi – qualcuno ricorda l’idraulico polacco del no francese alla Costituzione europea? – avrebbe dovuto costituire un campanello d’allarme. Ma anche in Italia quasi tutti hanno preferito voltarsi dall’altra parte. La questione torna ora d’attualità, ma in un contesto reso assai più difficile dalla grave crisi economica e finanziaria in cui ci dibattiamo.

Nessuno nega, noi tantomeno, che il sistema finanziario e l’economia reale abbiano bisogno, in questa situazione d’emergenza, di soldi pubblici. Né che l’intervento debba essere tempestivo, se vogliamo evitare che la recessione si avviti a spirale. Comprendiamo anche l’affanno di molti governi nel tentare di rispondere alle ansie dell’opinione pubblica dinanzi ai segnali di crisi che si moltiplicano ogni giorno. Tuttavia sarebbe davvero miope dimenticare che il Trattato CE, all’art. 87, dichiara “incompatibili con il mercato comune […] gli aiuti concessi dagli Stati […] che […] falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Il Trattato stesso prevede, è vero, alcune deroghe. Ma a decidere sulla loro compatibilità col mercato comune è la Commissione Europea, non certo gli Stati membri che varano gli aiuti.

C’è un problema d’urgenza, certo. Ma questo problema non si può risolvere à la Fillon – cioè annunciando aiuti pubblici e intimando allo stesso tempo alla Commissione di darsi una mossa, perché così facendo si mina alla radice l’autorità, la serenità di giudizio e l’imparzialità dell’esecutivo europeo.

Non solo: di fronte a certi aiuti che dovessero violare la concorrenza, o la Commissione ne impone prima o poi il ritiro; oppure altri stati membri li emulano. Il primo esito è inutile. Il secondo è dannoso, perché tutti si ritroverebbero alla fine peggio di prima: con meno risorse, gli stessi problemi e la credibilità dell’arbitro travolta dagli eventi. La concorrenza finirebbe per essere ingestibile, a causa di interventi nazionali non coordinati e asimmetrici e soprattutto perché non è chiara la “data di scadenza” dell’impegno pubblico. Non è solo una questione di importi ed asimmetria degli aiuti, è anche e forse soprattutto una questione di time consistency dell’impegno pubblico, che non è definito sul piano temporale della scadenza e delle sue diverse profondità nazionali. Le aziende si troverebbe a competere senza sapere il grado o l’estensione del sostegno pubblico di cui possono beneficiare, soprattutto i vincoli e i limiti temporali della sua esistenza. Vive la concurrence!     

Visto che i cordoni della borsa per gli aiuti di Stato sono in mano ai governi nazionali – la Comunità può contare su un bilancio pari all’1% del PIL europeo, quattro quinti del quale sono già destinati a sussidi – l’unica soluzione è coordinarli il più strettamente possibile e sotto la supervisione la più rigorosa possibile della Commissione. In altre parole, con l’incalzare degli eventi e la gravità della crisi, la Commissione non può giudicare solo ex post decine e decine di piani di aiuto pubblico, che ormai si susseguono quasi a ritmo giornaliero. Deve poterli valutare ex ante.

I settori sui quali c’è più attivismo sono le banche e l’auto. Facendo tesoro dell’esperienza europea della crisi siderurgica degli anni ’80, che fu affrontata con lo strumento di un “cartello di crisi”, si potrebbe pensare allora che gli Stati membri, per ciascuno dei due settori, designino un proprio rappresentante a un comitato ad hoc presieduto dalla Commissione. Prima di varare, o anche solo di annunciare, ulteriori aiuti lo Stato membro ne discute con i propri pari e la Commissione. Il risultato cui si dovrebbe tendere sono interventi simultanei, coordinati in ampiezza e intensità, perciò il più possibile neutrali dal punto di vista della concorrenza. Solo la Commissione può dare garanzie su quest’ultimo punto. Occorre d’urgenza mettere la Commissione Europea al volante del processo – d’altronde parliamo di auto, oltre che di banche. Altrimenti prepariamo al peggio e alla fine del mercato interno!
 
La decisione di istituire i due comitati può essere di basso profilo, presa ad esempio al primo consiglio competitività utile. Oppure di alto profilo, presa da un Consiglio europeo ad hoc. Basso o alto profilo, bisogna sbrigarsi a prenderla. Collocare a Bruxelles la situation room della risposta europea alla crisi dovrebbe essere ovvio. Qui c’è molto di più in gioco della ripresa economica. C’è mezzo secolo di processo di integrazione europea il cui nucleo centrale è stato ed è il mercato interno. Se crolla il mercato interno crolla l’Europa pacifica e ricca che, a torto, ci siamo abituati a dare per scontata.

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