Euro: molto rumore per un rischio di credito?

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Da inizio anno l’area euro è sottoposta a forti tensioni da tutti qualificate come “speculative” che sembra possano mettere a rischio la stessa sopravvivenza della moneta unica.
Qui vorremmo dare una lettura apparentemente non ortodossa delle recenti vicende, che tuttavia, previo attento esame, dovrebbe risultare tutt’altro che eccentrica, al pari del giudizio che sembrano meritare le vicende in corso se lette in modo sufficientemente disincantato.
 
1. Le tre fasi.
Innanzi tutto alcune date di riferimento. Nel febbraio 1992 fu firmato il trattato di Maastricht contenente i famosi parametri per l’ingresso (e, in un certo senso, la permanenza) nella moneta unica: inflazione non superiore di 1.5 punti a quella dei tre stati più virtuosi, disavanzo pubblico non oltre il 3% del pil, debito pubblico non oltre il 60% del pil, tassi a lunga non superiori di 2 punti a quelli dei suddetti tre stati virtuosi.
Nel giugno 1998 fu istituita la Banca Centrale Europea e nel gennaio 1999 fu introdotto l’euro, prima come moneta elettronica e poi (dal gennaio 2002) anche come moneta cartacea.
La nascita dell’unione monetaria fu subito vista come una scommessa rischiosa per la non facile pretesa di “costringere” gli stati verso l’unione politico-economica solo dopo la creazione dell’unione monetaria: la moneta non come suggello ma come attrattore di una compiuta unione europea, l’opposto, per citare un caso a noi vicino, di quanto avvenne 150 anni fà in Italia, quando l’unità monetaria fu stabilita dopo l’unificazione politica (1861) e la Banca centrale unica addirittura molti anni dopo (1893).
Il decennio successivo, 1999-2009, si è così frapposto tra un “prima” e un “dopo” che possono essere letti come un unico, logico sviluppo, in cui gli avvenimenti recenti si collocano a segnare l’avvio della terza e ultima fase. Con un po’ di enfasi, le potremmo chiamare la fase della convergenza apparente, la fase del dividendo abbondante, la fase della diaspora emergente.
La prima fase può essere rappresentata dagli anni ’90, nel corso dei quali gli 11 paesi che aderirono da subito all’euro (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, cui si aggiunse la Grecia dal gennaio 2001) avevano mostrato economie fortemente disomogenee e uno stato della finanza pubblica, come riassunto dai livelli dei tassi d’interesse rispetto alla Germania, fortemente duale, con paesi virtuosi e paesi gravemente indebitati.
In Fig. 1 si vede chiaramente come Italia, Spagna, Portogallo (per indicarne alcuni) avevano all’epoca spread sul Bund tedesco dell’ordine di 4-6 punti percentuali, contro Francia (ma anche Olanda) sotto il punto percentuale, e a volte anche sotto zero.
Gli sforzi di risanamento e la credibilità degli impegni presi dai diversi governi convinsero i mercati sulla fattibilità della scommessa e gli spread cominciarono a convergere rapidamente, nonostante la lentezza, per non dire l’assenza, della convergenza nei fondamentali economici e di bilancio.
La luna di miele tra i mercati e l’area euro è durata ben 10 anni, agevolata dalle politiche monetarie internazionali e dall’espansione creditizia mondiale. Tuttavia, secondo il noto detto di Lincoln, si può ingannare qualcuno per sempre, tutti per un po’ di tempo, ma non si può ingannare tutti per sempre. Quel “po’ di tempo” nel caso dell’euro è durato 10 anni e anche questo, forse, è un record da ascrivere alla moneta unica.

 
Figura 1

 

Dopo la dura lezione della crisi creditizia del 2008, i mercati hanno ripreso a valutare il merito di credito anche degli stati membri dell’area euro e si sono accorti (Fig. 2) che la situazione è preoccupante o in termini assoluti (Italia) o in termini relativi (Francia, Spagna, Portogallo, per restare ai casi già illustrati).
Nel caso italiano, l’unica strada che abbiamo per evitare una crisi finanziaria sembra essere il proseguimento di un sentiero di rientro (assoluto e relativo) del rapporto debito/pil. Infatti, un tendenziale miglioramento, come quello avvenuto fino al 2004, è forse il solo modo per far accettare un livello di debito tuttora doppio rispetto a quanto richiesto dal Trattato di Maastricht.
 
2. Fine dell’euro?
L’emersione degli spread di tasso è dunque il riflesso di una resuscitata valutazione del merito di credito. Da questo punto di vista dovrebbe più stupire la sua assenza nello scorso decennio che la sua ripresa odierna.
Va osservato tuttavia che l’emersione degli spread creditizi avviene oggi, a differenza degli anni ’90, in un contesto di unità monetaria. E’ compatibile questa nuova situazione di tassi divergenti con la sopravvivenza dell’euro?
In linea di principio, una moneta governata da una rigorosa banca centrale, attenta – al pari dei paesi più virtuosi – alla stabilità dei prezzi interni, non pare in contrasto con l’apprezzamento di diversi rating di credito dei paesi membri.    

 
Figura 2

 
 

Si pensi, banalmente, al caso di una nazione ove vige un’unica moneta ma convivono imprese di diversa solidità finanziaria. Nessuno penserebbe che questa eterogeneità possa minacciare l’unità monetaria. Tutt’al più, essa può minacciare la sopravvivenza di alcune imprese il cui default può rappresentare l’inevitabile sbocco di una spirale di crescente dissesto economico-finanziario.
Naturalmente, la trappola del “too big to fail” – “too big to save” non vale solo per le grandi imprese (bancarie) ma, a maggior ragione, anche per i paesi, soprattutto se impegnati a garantire il debito (bancari) privato: né con te né senza di te, avrebbe detto il poeta. Se il fallimento di un’impresa ha costi economici e sociali elevati, il fallimento di un paese ha costi economici e sociali incalcolabili per cui esso potrebbe essere visto semplicemente come l’uscita da una crisi locale e l’ingresso in un’altra, globale.
Per i paesi in difficoltà potrebbe esserci la tentazione (aspetti tecnici a parte) di cercare una soluzione alternativa nell’uscita dall’area euro. Tale soluzione, tuttavia, oltre a essere classificabile come vero e proprio default su tutto il debito denominato in euro, si rivelerebbe presto inconsistente.
Infatti, se è vero che ai paesi in difficoltà che restano nell’euro viene a mancare l’aiuto rappresentato dal deprezzamento del cambio, è anche vero che l’appartenenza a un’area economico-monetaria comune genera un sostegno reciproco che (soprattutto se fornito con maggiore prontezza e convinzione di quanto concretamente visto la scorsa primavera) potrebbe essere efficace quanto e più di una classica svalutazione del cambio.
Questa, non va dimenticato, finisce per produrre scarsissimi benefici di breve periodo (in dipendenza delle elasticità di import ed export e delle valute di fatturazione degli scambi internazionali) e danni di più lungo periodo in termini di inflazione importata, inefficienza produttiva delle imprese e penalizzazione dei settori aperti alla concorrenza internazionale. L’esperienza italiana degli anni ’70 ne è un’eloquente dimostrazione.
E’ pur vero che una spirale inflazionistica avrebbe l’effetto di una tassazione occulta che alla lunga farebbe prosciugare il peso del debito pubblico (almeno per la parte non indicizzata) ma al costo di un generale indebolimento della struttura economica nazionale e un depauperamento dei redditi reali pro-capite.
L’uscita dall’euro non rappresenta dunque la soluzione ai problemi né per i paesi virtuosi, beneficiati da un’area di integrazione monetaria e commerciale, né per i paesi deboli, la cui debolezza finirebbe per accrescersi ulteriormente.
 
3. Moneta unica e crescita
Quali dunque i benefici di un’unica moneta per la contabilità, gli scambi e le riserve?.
Si consideri la classica “teoria quantitativa” della moneta applicata all’area euro, MV=PY, con M stock di moneta in circolazione, V velocità (annua) della moneta, P livello dei prezzi, Y pil (annuo) dell’area euro.
In termini di tassi percentuali di variazione, l’espressione diventa: m+v = p+y, vale a dire crescita della moneta più crescita della sua velocità eguaglia crescita dei prezzi più crescita del prodotto.
Se assumiamo che la variazione della moneta e della sua velocità siano le medesime in tutta l’area ne discende che la moneta unica ha l’effetto di far dipendere i differenziali di inflazione dai differenziali di crescita del pil. Ad esempio, per Italia e Germania:
pit-pge = yge-yit [1]
In caso di diverse monete (lira e marco), trascurando differenze nella velocità di circolazione, si avrebbe, invece:
pit-pge = mit-mge+ yge-yit [2]
a indicare un differenziale d’inflazione crescente non solo con la diversa crescita reale ma anche con la diversa espansione monetaria.
In questo modo la moneta unica tende a comprimere i differenziali d’inflazione tra i paesi membri spingendo i soggetti “non allineati” verso l’aggiustamento delle quantità.
Si veda, in proposito la Fig. 3 in cui la somma dei differenziali di inflazione e crescita reale (v. equazione [1]) mostra nell’area euro un sensibile appiattimento durante il periodo della moneta unica. A riprova, il grafico contiene anche il caso UK (rispetto alla Germania) per la quale non si evince alcuna apprezzabile differenza tra l’ultimo decennio ed i precedenti.

 
Figura 3 
  
 

Le politiche di crescita, nel contesto della moneta unica, diventano le uniche realmente efficaci per contenere i differenziali d’inflazione nei limiti fisiologici e per ridurre progressivamente il peso del debito, sia pubblico che privato.
La “ristrutturazione del debito” (più volgarmente, il fallimento) può essere una via estrema di risanamento quando essa si accompagna a misure rigorose e convincenti di risparmio, investimento, crescita produttiva (si vedano i recenti interventi di Wyplosz http://www.voxeu.org/index.php?q=node/5886 e di Amato, Baldwin, Gros, Micossi e Padoan, http://www.voxeu.org/index.php?q=node/5893 ) . Il ruolo dei paesi leader europei diventa quello di valutare, in modo lungimirante e non miope, i benefici di una vasta area di stabilità monetaria e di unione economica e di aiutare, di conseguenza, i governi dei paesi in difficoltà ad adottare le misure strutturali per la crescita, senza attendersi risultati immediati ma anche senza fare sconti circa la serietà dello sforzo richiesto.
La presenza di una cooperazione internazionale può anche rappresentare un elemento non secondario di garanzia per far accogliere all’opinione pubblica nazionale un piano di sacrifici non certo indolori: una ristrutturazione con ammortizzatori oggi, in cambio di una crescita domani. Ribaltando il titolo di un vecchio film, non si risanano così anche le imprese?
Anche nei termini della doppia relazione taxation-representation, l’uso di fondi pubblici, finanziati dai contribuenti dei paesi virtuosi, giustifica l’istanza della rappresentazione dei loro interessi nella formazione delle decisioni di politica economica dei paesi in difficoltà.
La cessione di quote di sovranità economica e fiscale in cambio della partecipazione ad un’impresa di dimensioni continentali è in fondo lo strumento con cui è nata e cresciuta l’Unione Europea e resta ancora la prospettiva più credibile di soluzione dell’attuale crisi: non l’exit ma l’entry strategy può convincere i mercati a ricommettere sull’Europa.
Peraltro, la via della cooperazione internazionale per il risanamento e la crescita non ha alternative. Essa sarebbe il primo nucleo operativo per mettere le basi di una governance economica comune: un passo decisivo verso l’unione politico-economica intravista dai padri fondatori dell’Europa unita.
 

 

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