Da Luigi Einaudi a Giuliano Amato: la patrimoniale, il lungo percorso di un’imposta incompresa
Di Angelo Marinelli
Il destino che ha investito l’imposta patrimoniale nel nostro Paese risente in larga parte dell’utilizzo “aggiuntivo” che ne è stato fatto nel corso della storia repubblicana rispetto alla tassazione personale sul reddito e dell’applicazione “straordinaria” ed “episodica” collegata alle emergenze della finanza pubblica (si pensi all’intervento realizzato nel ’92 dal Governo Amato per evitare il default finanziario e permettere al nostro Paese di rimanere agganciato, al sistema monetario europeo).
Non sfugge, infatti, che nel dibattito attuale l’ipotesi di introdurre l’imposta patrimoniale viene soprattutto evocata per fronteggiare la difficile situazione della finanza pubblica e per ridurre l’impatto del Debito pubblico sul Prodotto Interno Lordo, in linea con gli impegni assunti in sede europea nell’ambito del nuovo patto di stabilità (Fiscal Compact), agitando dunque lo spettro di un’ulteriore aumento del livello della pressione fiscale complessiva.
Questo approccio “politico – ideologico”, in uno scenario fiscale caratterizzato da alcuni anni dall’incremento continuo ed esasperato del carico fiscale ordinario, a livello nazionale e locale, sia nella componente delle imposte personali (irpef) che in quella delle imposte reali (Imu, Iva, imposte sostitutive sulle attività finanziarie, imposta di bollo sugli strumenti finanziari, ecc.) ha impedito di sviluppare un sereno dibattito attorno alle potenzialità dell’imposta patrimoniale, in termini di recupero della capacità contributiva oggi sommersa e di maggiore equità distributiva del prelievo.
In proposito va detto, in estrema sintesi, che il patrimonio può costituire un indice della ricchezza più appropriato del reddito e del consumo, in considerazione dell’elevato livello di evasione ed elusione fiscale che colpisce le nostre principali imposte dirette ed indirette (Irpef ed Iva).
D’altronde, l’esigenza di sostenere la competitività del sistema produttivo e delle imprese ha giustificato, negli ultimi anni, progressivi interventi di aggiustamento dell’Ires e dell’Irap, attraverso la riduzione delle aliquote o l’ampliamento delle deduzioni accordate.
Mentre, dunque, appare poco praticabile l’introduzione di un’imposta patrimoniale in funzione discriminatoria ed aggiuntiva rispetto alle imposte reali e personali attualmente già esistenti, occorre riflettere sull’opportunità di una sua istituzione a fini “sostituitivi” dell’attuale prelievo fiscale ordinario, riconoscendo a questa tipologia di tributo una indubbia utilità in termini di efficienza, efficacia ed equità. Ma di quale imposta patrimoniale stiamo parlando? Un’imposta patrimoniale reale o personale? Ordinaria o straordinaria? Proporzionale o progressiva?
Le implicazioni che se ne traggono sono molto diverse e vanno valutate alla luce degli obiettivi da assegnare al nuovo tributo.
La dottrina giuridica sembra divisa sulla legittimità costituzionale di un prelievo patrimoniale ordinario sui beni produttivi, perché a giudizio di alcuni, intaccando la fonte produttiva si ridurrebbe la possibilità dei contribuenti di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, secondo quanto previsto dal primo periodo dell’art. 53 Cost.. La dottrina è, invece, pressoché concorde nell’affermare la legittimità di una tassazione sui beni improduttivi, sui quali anzi l’imposizione ordinaria rafforzerebbe la realizzazione del principio di progressività tributaria, senza invadere lo spazio di tutela accordato alla libertà dell’iniziativa economica e alla proprietà privata dagli artt. 41 e 42 Cost..
Va, peraltro, detto che i dubbi sulla costituzionalità di un’imposizione patrimoniale ordinaria sui beni produttivi si attutiscono, fino a venir meno, quando il reddito che deriva dal cespite sul quale è effettuato il prelievo patrimoniale cessa di essere tassato. In sostanza, o si tassa il reddito che deriva dall’uso di un cespite o si tassa il cespite che produce il reddito, senza tassare quest’ultimo.
E’ in questa chiave che, sul piano teorico, potrebbe giustificarsi l’introduzione di un’imposta patrimoniale ordinaria il cui gettito ricavato sia interamente destinabile alla riduzione del prelievo effettuato tramite l’imposta personale sul reddito.
Vediamo perché.
Un prelievo ordinario sul patrimonio, anziché straordinario, avrebbe come conseguenza quella di un aumento strutturale del gettito. Si tratta di un’impostazione che contrasta fortemente con quella di chi propugna l’introduzione di un’imposta patrimoniale straordinaria, finalizzata a ridurre nell’immediato l’impatto del debito pubblico sul Pil rivedendo, per questa via, nel medio periodo l’assetto complessivo del sistema tributario. Un’impostazione, che fa perno sui riferimenti storici della teoria economica del dopoguerra[1] e sul modello di tassazione ancora vigente in Francia[2].
Se l’obiettivo è esclusivamente ridistributivo perché l’imposta ordinaria sul patrimonio sarebbe preferibile all’imposta ordinaria sul reddito?
L’irpef è un’imposta sul reddito delle persone fisiche a cui sono assegnati molte finalità: é quella che fornisce il maggiore gettito fa le imposte attualmente esistenti nel nostro sistema tributario e che persegue obiettivi di natura ridistributiva (tramite l’elevata progressività delle sue aliquote) e sociale (mediante il sistema delle detrazioni d’imposta e la “no tax area”). Troppi scopi, forse, per una sola imposta generalista che viene prelevata in modo differenziato sul reddito dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (percosso alla fonte), rispetto ai redditi da lavoro autonomo, da capitale e diversi.
Oltre il 99% delle persone fisiche dichiara redditi inferiori ai 100.000 euro lordi. il 90% degli stessi risulta collocato entro i 35.000 euro e il 23% dei contribuenti con i redditi più alti detiene il 22,9% del reddito complessivo, ossia una quota maggiore a quella detenuta dal 55% dei contribuenti con i redditi più bassi[3]. E’ evidente da questi dati come la nostra principale imposta fatichi ad intercettare la reale capacità economica dei contribuenti italiani e, al tempo stesso, come vengano meno gli obiettivi ridistributivi che pure, sulla carta, il legislatore gli aveva assegnato.
L’Irpef finisce, dunque, per essere un’imposta iniqua perché grava prevalentemente (per oltre l’80%) sui redditi da lavoro dipendente e da pensione colpiti tramite il meccanismo delle “ritenute alla fonte” in modo progressivo, non riuscendo, peraltro, a compensare coloro che a causa del basso reddito non usufruiscono, parzialmente o appieno, delle detrazioni concesse (il c.d. fenomeno dell’incapienza). Inoltre, il “drenaggio fiscale” erode progressivamente il potere di acquisto dei contribuenti[4].
L’imposta patrimoniale ordinaria potrebbe correggere il processo di distribuzione della ricchezza che si forma sul mercato tramite il possesso di beni mobiliari ed immobiliari, consentendo perciò una riduzione contestuale del prelievo effettuato tramite l’Irpef.
Inoltre, nel nostro Paese il beneficio differenziale che lo Stato fornisce ai beni mobiliari ed immobiliari, in termini di protezione del diritto di proprietà e di garanzie per l’impiego dei patrimoni, è molto elevato: ciò giustifica la fissazione di un “prezzo fiscale”, in modo che il principio del concorso alla spesa pubblica secondo la propria capacità contributiva (art. 53 Cost.) tenga conto dell’elevata concentrazione della proprietà immobiliare e della ricchezza mobiliare detenuta dalle famiglie italiane[5].
Occorre poi valutare se sia preferibile un prelievo patrimoniale reale o di tipo personale. Le motivazioni economiche che giustificano la scelta per un’imposta reale, anziché personale, non sono tramontate: la “fonte” da cui promana la ricchezza non è secondaria ai fini dell’individuazione del presupposto o della misura del tributo.
Tassare la prima casa di abitazione è diverso dal tassare la seconda o la terza, ma anche il possesso di una seconda casa non di lusso in un luogo diverso da quello di residenza, ad esempio “al mare” o in “montagna”, dà luogo ad un presupposto sociale diverso e, forse, giustificherebbe una tassazione differenziata di quell’immobile, rispetto a chi lo detiene per un uso speculativo.
Un prelievo “reale” e non “personale” forse è in grado di rispettare meglio i canoni di equità orizzontale che richiedono di considerare i diversi presupposti delle fonti di ricchezza.
Al tempo stesso se l’obiettivo è quello di recuperare una maggiore progressività del prelievo, l’imposizione personale sembra meglio rispondere ai principi di equità verticale, che richiedono di valutare diversamente i contribuenti in relazione al volume complessivo della ricchezza posseduta. D’altronde la progressività va valutata sempre con riferimento ad una determinata base imponibile.
Un’imposta proporzionale sul patrimonio può essere progressiva rispetto al reddito, mentre un’imposta progressiva sul reddito può essere regressiva rispetto al patrimonio o al consumo.
La maggiore efficienza, sul piano teorico, che caratterizza l’imposta patrimoniale personale rispetto a quella reale si scontra, nella pratica, con numerosi problemi applicativi, perché l’attenuazione dei vincoli ai movimenti dei capitali nello spazio europeo insieme alla volatilità dei mercati mobiliari ed immobiliari rendono più difficoltosa la stabilizzazione della base imponibile ed aumentano gli effetti di formulazione relativamente ai consumi e al risparmio privato. Questa è una delle ragioni per la quale questo tipo d’imposta è stata via, via abbandonata da molti paesi che invece l’adottavano negli anni ’70.
L’inclusione delle passività finanziarie nel calcolo dell’imposta personale aumenta la propensione delle famiglie e delle imprese all’indebitamento per ridurre la base imponibile. D’altro canto l’imposta patrimoniale reale che non tiene conto delle passività finanziarie risulta meno eludibile ma presenta maggiori problemi sul piano dell’equità.
L’imposta patrimoniale reale si concentra, infatti, sul cespite, immobiliare o mobiliare, tassando indifferentemente la persona fisica o giuridica che lo detiene (si possono però introdurre “eccezioni” per esentare, ad esempio, i beni strettamente funzionali all’esercizio di un’attività economica, ecc.), mentre un’imposta patrimoniale personale considera l’intera situazione patrimoniale del soggetto tassato e consente di distinguere fra persone fisiche e giuridiche.
Un’imposta patrimoniale indiretta sui cespiti appare più efficace nell’intercettare la ricchezza detenuta dalle famiglie quando sussistono elevate asimmetrie informative o nel caso del nostro Paese dove l’anagrafe tributaria organizzata per contribuenti è una conquista relativamente recente.
Ovviamente, le caratteristiche reali possono essere temperate con quelle personali, in modo da migliorare l’efficacia e l’equità del prelievo, introducendo ad esempio meccanismi di progressività dell’imposta con riferimento non solo al valore patrimoniale complessivo maal numero di cespiti immobiliari posseduti, in modo che chi ha, ad esempio, 10 case, paghi su ciascuna più che proporzionalmente di più rispetto a chi ne possegga una seconda soltanto.
Infine occorre valutare l’opportunità di reintrodurre una imposta sul patrimonio netto, coordinandola con l’Ires, al fine di evitarne gli effetti elusivi, in modo da estendere la tassazione anche alle società che oggi sfuggono all’imposizione sui redditi societari mediante il ricorso ad una gestione tattica dei profitti e delle perdite. In passato, il trattamento tributario di favore per l’indebitamento, a scapito del capitale proprio, ha incentivato la sottocapitalizzazione delle imprese, con effetti negativi sul mercato dei capitali e sulle quotazioni di borsa. Ecco perché l’introduzione di un’imposta sul patrimonio netto, accompagnato da un’attenta valutazione sugli ammortamenti e le deducibilità consentite, potrebbe consentire l’allargamento della base imponibile riducendo i disincentivi alla capitalizzazione suddetti. L’ultima imposta sul patrimonio netto delle imprese venne istituita con il DL 394/1992 convertito nella legge 461/1992, a fronte del peggioramento del quadro di finanza pubblica. Con l’art 36 del decreto legislativo 446/1997 (che istituiva l’irap) l’imposta venne abolita.
Fra le imposte patrimoniali rientra a pieno titolo anche l’imposta sulle successioni che colpisce il trasferimento della proprietà sui beni mobili e immobili, a seguito della morte del titolare del diritto di proprietà. Abolita dal primo governo Berlusconi e poi reintrodotta dal governo Prodi essa non limita l’incremento del patrimonio durante la vita, mentre colpisce chi il patrimonio riceve, con un meccanismo che nel nostro Paese tende a tassare di più i parenti in relazione al grado di parentela e al patrimonio ricevuto in donazione (esiste una franchigia, entro la quale l’imposta non è dovuta, pari a 1 miliardo di euro per il coniuge e i parenti in linea retta e a 100.000 euro nel caso in cui i beneficiari siano fratelli o sorelle del defunto). L’imposta di successione contribuisce a ridistribuire le dotazioni di ricchezza e, come tale, è uno strumento di politica fiscale formidabile per l’equità ma incontra limiti di efficienza allocativa in quanto, disincentivando l’accumulo patrimoniale riduce le disponibilità di capitali per l’economia di mercato. Questo aspetto ne limita l’opportunità di un suo ampliamento nei Paesi come il nostro in cui lo Stato fa un massiccio ricorso all’emissione di debito pubblico, contribuendo a ridurre la disponibilità residua di capitali per l’economia reale.
Fra le imposte patrimoniali possono essere, infine, annoverate anche le imposte sui trasferimenti della ricchezza che finiscono per scoraggiare l’incremento del patrimonio o la mobilità dei capitali o il trasferimento degli immobili. Va, però, detto che i tributi prelevati come imposta di bollo, in cui il prelievo si incorpora con l’atto di compravendita, sono più difficilmente evadibili perché l’imposta dovuta è collegata ai requisiti di validità dell’operazione. L’impossibilità di ricorrere al pagamento in contanti riduce anche il rischio che il valore dichiarato risulti inferiore a quello di compravendita.
Un’imposta che colpiva la sola plusvalenza originata in caso di trasferimento della proprietà di terreni e fabbricati era l’Invim. Quest’imposta colpiva, in modo progressivo, con più aliquote, la base imponibile costituita dalla differenza tra valore iniziale e valore attuale dell’immobile. Il gettito dell’imposta era attribuito ai Comuni. Di recente, Pellegrino Capaldo ha proposto di reintrodurre un’imposta straordinaria sulla plusvalenza immobiliare, il cui gettito avrebbe dovuto essere finalizzato alla riduzione del debito pubblico. Questa proposta si presta a numerose obiezioni sul piano dell’equità: se la plusvalenza tassata viene calcolata sul valore catastale dell’immobile essa non tiene conto adeguatamente conto dei prezzi di mercato; se viene calcolata sul valore di vendita risente della dinamica altalenante riscontrata nel mercato immobiliare negli ultimi venti anni.
Abbiamo sinteticamente analizzato alcune fra le più importanti tipologie di imposizione patrimoniale, evidenziandone i problemi applicativi e i limiti che di volta in volta si riscontrano sul piano dell’efficienza, dell’efficacia o dell’equità. La conclusione è che non esiste, in assoluto, un’imposta ottima: le scelte e vanno effettuate, tenendo conto dell’attuale situazione economica e sociale, dei limiti del nostro sistema fiscale, degli obiettivi di politica economica e finanziaria che si intendono perseguire. Le proposte sull’imposizione patrimoniale mettono a dura prova tanto le terapie d’urto di chi la propugna per abbattere il debito pubblico, quanto le facili professioni di chi la invoca, invece, a fini ridistributivi per ridurre l’impatto dell’imposta personale sul reddito, spostando il prelievo verso le più evidenti manifestazioni della ricchezza incorporate nella concentrazione mobiliare ed immobiliare.
[1] Vedi “L’imposta patrimoniale” di Luigi Einaudi, marzo 1946, ripubblicato per i tipi instant book da Chiarelettere
[2] L’imposta patrimoniale personale fu introdotta in Francia da François Mitterrand nel 1982, successivamente abolita da Jacques Chirac nel 1987, è reintrodotta due anni dopo. Nicolas Sarkozy ne annunciò la soppressione mai realizzata per il sopraggiunto peggioramento della situazione della finanza pubblica.
[3] Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento delle Finanze, Statistiche sulle dichiarazioni dei redditi delle
persone fisiche (IRPEF) relative all’anno d’imposta 2011, settembre 2012.
[4] Una breve indagine sul fenomeno del fiscal drag – effettuata dal Dipartimento di Scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze su mandato del Dipartimento di Democrazia economica, Economia sociale, Fisco, Previdenza e Riforme Istituzionali della Cisl – mostra come il mancato adeguamento dell’irpef all’inflazione, durante il periodo 2007-2012, abbia determinato un minor reddito disponibile: i contribuenti Caf-Cisl hanno, infatti, cumulato, nel periodo considerato, una perdita pari al 5,83% del reddito 2012 (circa 1040 euro (Redditi e imposte delle famiglie italiane, lavoratori dipendenti e pensionati in tempo di crisi, Filippo Elba, Luciano Matrone, Vincenzo Patrizii, Novembre 2013.
[5] Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane. Supplementi al Bollettino Statistico – Indicatori monetari e finanziari – Anno XXIII – 13 Dicembre 2013