La fusione Luxottica-Essilor che dovrebbe compiersi entro la fine del 2017 creerà un’entità con capitalizzazione di 50 miliardi di euro, ricavi netti di 15 miliardi, 140.000 dipendenti impiegati e vendite in 150 nazioni. Questa fusione mostra alcune caratteristiche sempre più evidenti e rilevanti nelle fusioni odierne a livello globale.
Primo, più che in passato, le fusioni tendono non solo a conquistare quote di mercato ma soprattutto a creare nuovi mercati. La fusione dell’italiana Luxottica e della francese Essilor mette insieme competenze diverse ma complementari: Luxottica è leader nelle montature di occhiali e ha una vasta rete di rivenditori, Essilor è il leader mondiale delle lenti. Uno degli obiettivi della fusione è quello di sfruttare le sinergie e complementarietà (valutate in circa 400-600 milioni) per creare prodotti nuovi e innovativi come gli occhiali con realtà aumentata.
Secondo, la crescente emersione dalla povertà di interi continenti come Asia, Sud America e Africa genera una domanda così ampia, da richiedere dimensioni adeguate sul lato dell’offerta. Per esempio, nel caso Luxottica-Essilor, si stima un mercato potenziale di 2.5 miliardi di persone che domandano occhiali o lenti a contatto in Asia, Africa e America Latina. In questo scenario, l’Europa e i mercati tradizionali rischiano di divenire secondari o marginali.
Infine il contesto istituzionale gioca un ruolo centrale. Al livello globale e in particolare nel contesto europeo negli ultimi lustri si è assisto a una crescente convergenza legislativa e istituzionale per quel che concerne le regole di mercato dei prodotti, dei capitali e del lavoro, che facilita le interazioni tra imprese e, potenzialmente, le integrazioni.
Quali effetti negativi? Le grandi dimensioni possono gravare sul consumatore quando sono accompagnate da posizioni di quasi-monopolio e quindi prezzi più alti, e/o gravare sui contribuenti quando le imprese sono grandi, talmente grandi, da condizionare le politiche industriali di una nazione e per questo spesso gravare sulla fiscalità generale.
Un altro aspetto negativo delle fusioni è che, ampliando il campo geografico di azione delle imprese, si diluisce la rilevanza dei territori di origine. Le fusioni comportano un processo di sradicamento e, in estremo, di delocalizzazione. Per mantenere il radicamento con il territorio si devono creare le condizioni per rendere “costosa” la delocalizzazione. Ma non tramite imposte (come ha proposto Trump) perché le imposte molto spesso si ripercuotono in compressioni dei salari e/o aumento dei costi di produzione, ovvero prezzi più alti per i consumatori. Per rendere costosa la delocalizzazione occorre investire in risorse immateriali quali competenze e professionalità che l’imprenditore, se decide di delocalizzare, non troverebbe altrove. (1)
(1) Non si propone qui di favorire una “monocoltura industriale” con la presenza di una sola grande impresa, ben radicata sul territorio, ma dalle cui sorti dipende l’intero tessuto economico. Investire in competenze e professionalità significa soprattutto diversificare la formazione con l’intento di mantenere o accogliere una pluralità di opportunità economiche. [si ringrazia Mario Dal Co per aver sollecitato questa breve riflessione]